Come equilibristi sospesi nel vuoto, in bilico costante su una fune che si assottiglia sempre di più.
Per l’avvocato marittimista Andrea La Mattina è questa la situazione nella quale si trovano a vivere oggi i presidenti delle Autorità di Sistema Portuale, sommersi da continue inchieste giudiziarie e «costretti a operare su un crinale pericoloso, tra il rischio di commettere reati senza neanche accorgersene e la necessità di favorire a ogni costo lo sviluppo dei terminali portuali italiani a dispetto di competitor agguerriti».
No, l’impasse che si è venuta a creare non può essere superata soltanto grazie alla buona volontà e al buon senso di chi oggi è chiamato a gestire la res publica dei porti, ma occorrono «regole chiare che garantiscano soluzioni dotate di un alto grado di predictability».
La Mattina, che è professore di Diritto della Navigazione dell’Università di Pisa, ne è convinto: muoversi nelle pastoie delle leggi italiane non è affatto facile, soprattutto per i porti italiani. «Mentre gli scali di altri Stati dell’Unione Europea si stanno gradualmente trasformando in development organization in grado di operare secondo regole che hanno l’effetto di consentire azioni commerciali al pari di una qualsiasi impresa privata, le Autorità Portuali italiane – coerentemente con la propria natura di ente pubblico non economico – svolgono esclusivamente attività di natura amministrativa in un contesto disciplinare a volte confuso».
Un contesto sul quale insistono spesso zone grigie e poco trasparenti, di cui il giurista genovese conosce ogni sfumatura. I casi concreti da citare sono molti: l’accavallamento delle competenze tra le Autorità di Sistema Portuali e i molti controllori oggi presenti (in primis ART e ANAC) «costituisce sicuramente uno dei problemi più rilevanti da affrontare».
E poi c’è il tema della «inadeguatezza delle procedure di cui agli artt. 36 e seguenti del Codice della Navigazione relativamente alla scelta degli operatori terminalisti, e ciò anche in ragione della incompletezza della legislazione speciale di cui all’art. 18 della legge n. 84/94».
E poi, ancora, c’è il caso della «capacità di movimento, invero inesistente, dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale», che si trova a operare in una situazione di confusione normativa a causa «dell’overlapping tra le disposizioni di cui alla legge 84/94 e quelle previste dalla legislazione speciale per Venezia».
Di esempi così ce ne sarebbero a decine, ma quello che a La Mattina preme davvero sottolineare è che ad oggi «le Autorità Portuali nazionali non hanno la possibilità concreta di essere commercially oriented, come richiederebbe invece il contesto internazionale».
Sotto questo punto di vista, il docente universitario trova discutibile che a livello comunitario, ma anche nazionale, vengano fatti impropri accostamenti tra l’attività di impresa e quella delle AdSP nostrane.
L’orientamento, espresso dalla Commissione Europea in tema di Aiuti di Stato (SA. 38399 2018/E – Tassazione dei Porti in Italia), e fatto proprio dal Tribunale di Genova nella sentenza n. 1016/2019, è chiaro: l’attività di sfruttamento economico dei terminali attraverso la corresponsione di un canone di utilizzo configura l’esercizio di un’attività economicamente rilevante in capo alle Autorità portuali, ma per il giurista genovese una simile impostazione non solo è falsa ma anche pericolosa, perché «obbliga il legislatore a qualificare come Aiuti di Stato sia le risorse assegnate alle AdSP dallo Stato Italiano che le esenzioni applicate in favore di tali enti».
La verità è che il caso dei porti italiani è del tutto peculiare proprio in ragione della normativa loro applicabile. La Mattina lo dice chiaramente: «Come evidenziato dallo stesso Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, la natura di bene demaniale del porto dovrebbe rendere evidente che gli investimenti nelle infrastrutture portuali sono “trasferimenti tra Amministrazioni pubbliche per realizzare opere sul demanio dello Stato, che ad esso restano nella sua veste di proprietario di beni pubblici». Non solo: «le AdSP regolano e amministrano il bene porto sulla base della legge, senza che alcun altro soggetto possa farlo e, quindi, senza che venga svolta alcuna attività di impresa contendibile da parte di altri operatori».
Per uscire dal cul de sac si hanno due possibilità: o «si difende strenuamente in tutte le sedi (Commissione, Tribunale di Primo Grado e Corte di Giustizia UE) l’attuale assetto portuale italiano, evidenziandone le peculiarità e tentando così di “riportare indietro le lancette dell’orologio” rispetto all’orientamento ormai consolidato in seno alla Commissione», oppure si prende atto «dei limiti del modello italiano e si prova a superarli attraverso una profonda e incisiva riforma, che consenta ai nostri porti di competere davvero “ad armi pari” con gli scali stranieri».
L’avvocato marittimista non esita a optare per quest’ultimo scenario: «Pur non condividendo la posizione della Commissione, che ritengo superficiale rispetto all’effettivo assetto dei porti italiani, odio le battaglie contro i mulini a vento, e, comunque, non ritengo che la attuale disciplina dei porti italiani meriti una battaglia».
Al contrario, «come suggerito su Port News dallo stesso presidente dell’AdSP di Genova Paolo Emilio Signorini, occorrerebbe fissare un nuovo “Statuto dei porti” che consenta una maggiore flessibilità operativa (e conseguenti deroghe) rispetto tra l’altro alla disciplina del lavoro pubblico, ai principi di cui al testo unico sulle società partecipate e a determinati vincoli derivanti dal codice dei contratti pubblici».
La Mattina va anche oltre e sottolinea come non debbano esserci «preclusioni sia rispetto alla trasformazione delle attuali AdSP in società per azioni sia rispetto alla privatizzazione del demanio marittimo portuale, e ciò ferma restando la necessità di mantenere oneri di servizio pubblico in capo ai soggetti che avranno il controllo dei porti, che devono rimanere infrastrutture strategiche necessariamente accessibili a tutti gli utenti attuali o potenziali».
Fermi questi limiti e fermo il rispetto delle norme in tema di concorrenza, il docente universitario mette in guardia dai facili allarmismi provocati da chi definisce il fenomeno della integrazione verticale come uno dei peggiori mali del mondo: «mi pare che la “acquisizione” dei terminali portuali da parte dei vettori marittimi non possa essere vista come un fenomeno necessariamente patologico, ma, anzi, come un’evoluzione fisiologica del resto testimoniata da recenti esperienze in tal senso. Per questo, non va stigmatizzata, ma semplicemente regolata in base a una disciplina chiara e predictable».
La Mattina conclude ritenendo auspicabile che si provveda a definire un «un vero e proprio “Codice dei Porti” nel quale sia contenuta l’intera legislazione in materia, una legislazione improntata alla flessibilità e rispettosa delle innegabili peculiarità del settore».