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Interventi

Guerre commerciali

Globalizzazione a rischio

di Salvatore Zecchini

Professore ordinario di Politica economica internazionale all’Università Tor Vergata di Roma
Presidente del Gruppo di lavoro dell’OCSE su PMI e Imprenditoria

Con la ripresa degli scambi commerciali dal 2016 i traffici marittimi sono tornati a espandersi a ritmi consistenti, come mostra l’indice dei movimenti di container nei 220 maggiori porti del mondo (Drewry Global Container Port Throughput Index) raggiungendo a gennaio di quest’anno il picco dal gennaio 2012. È una manifestazione della correlazione dell’andamento delle attività portuali con il commercio estero, ma anche con globalizzazione dei mercati e delle economie, col risultato che le prospettive dei traffici sono fortemente condizionate da quelle degli scambi internazionali, a parte i progressi nei mezzi di comunicazione e le turbolenze geo-politiche. Dopo gli anni post-crisi globale, in cui il commercio con l’estero aveva perduto il suo ruolo di traino della crescita delle economie avanzate, oggi le maggiori istituzioni economiche internazionali (FMI, OCSE, UE) stimano che riprenderà a crescere a ritmi superiori a quelli del PIL. Per esempio il FMI ritiene che nel biennio 2018-19 l’espansione dell’import-export di beni e servizi nelle economie avanzate possa sopravanzare quella del prodotto nazionale in misura simile a quanto registrato nel 2017, anno in cui il primo è aumentato del 4-4,2% mentre il secondo del 2,3%.

Si tratta di un quadro incoraggiante ma sempre più esposto ai rischi di una tendenza, emersa dalla crisi globale in poi, verso l’adozione di misure di protezione del mercato interno dai concorrenti esteri. Diversi indicatori denunciano questo preoccupante trend. Dal 2009 è crollato il numero dei nuovi accordi di libero scambio tra Paesi e dal 2012 sono proliferate le restrizioni al commercio  che hanno riguardato tanto i dazi e le misure anti-dumping quanto quelle non tariffarie, che sono le più nascoste. Esse comprendono prestiti agevolati all’export, sovvenzioni a rami produttivi, alleggerimenti fiscali, standard per i prodotti, agevolazioni ai campioni nazionali e diverse altre azioni che indirettamente penalizzano la concorrenza. Gli effetti sono evidenti: i settori più avvantaggiati hanno conosciuto una caduta delle importazioni ben maggiore di quelli meno protetti. Di fronte a questi attacchi al libero scambio l’organizzazione preposta al commercio mondiale, il WTO, ha mostrato i limiti della sua azione, in quanto non ha strumenti efficaci per prevenire queste misure né per ricondurre queste violazioni entro le regole in tempi accettabili. Le denunce di alterazione delle norme sulla concorrenza richiedono lunghi procedimenti e lasciano spazi a ritorsioni commerciali eccessive.

L’imposizione di nuovi dazi dal Presidente Trump, la sua denuncia dell’accordo NAFTA, il ritiro dall’accordo TPP nell’area del Pacifico, la paralisi in cui sta riducendo gli organi giudicanti del WTO e la minaccia di nuovi dazi verso l’UE e la Cina sono gli ennesimi passi in questa direzione, che sono forieri di grandi turbamenti nella disciplina delle politiche commerciali ottenuta dal secondo dopoguerra con gli accordi del GATT, sfociati nel 1995 nella creazione del WTO. Benché non sia ancora chiaro se le mosse di Trump abbiano carattere strategico o siano una tattica, l’effetto è di mettere in crisi il multilateralismo nel regime commerciale dei Paesi e la stessa globalizzazione della produzione su scala mondiale.

Multilateralismo sotto attacco, perché gli USA fanno leva sulla posizione di forza data dall’ampiezza del loro mercato e del loro sistema finanziario, per forzare i partner commerciali ad accordi bilaterali basati sulla reciprocità delle concessioni e trattamenti preferenziali per le proprie imprese. Globalizzazione a rischio, perché frapponendo nuovi rilevanti ostacoli agli scambi commerciali col resto del mondo, si compromettono le catene internazionali del valore, i guadagni di efficienza risultanti da programmazione aziendale e concorrenza su base globale, i canali di ottimizzazione delle fonti di componenti e tecnologie su scala mondiale nonché la partecipazione dei Paesi meno prosperi alle grandi correnti di sviluppo economico.

Non è che gli USA non possano accampare qualche giustificazione per questo atteggiamento di rigetto dell’ordine commerciale internazionale uscito dal trattato per il WTO. Essi vedono che alcuni grandi Paesi, un tempo in ritardo di sviluppo e pertanto favoriti da aperture asimmetriche dei rispettivi mercati, sono divenuti temibili concorrenti nei commerci mondiali e che la nuova divisione internazionale del lavoro tende a spiazzare produzioni americane ritenute strategiche, come acciaio e alluminio. Le disparità di protezioni tra i grandi blocchi commerciali sono reali: ad esempio, secondo i dati del WTO, negli USA le importazioni di macchine sono esenti da dazi per circa due terzi (tra il 54% e il 66,5% a seconda dei prodotti), la tariffa media varia dall’1,2% al 3% con punte massime tra 10 e 32%, mentre nell’UE per gli stessi prodotti l’area esente è meno di un terzo (tra 16,5 e 32,8% dell’import), la tariffa media tra 1,7 e 4,1%, con picchi tra il 10 e il 22%. Questi dati non tengono, tuttavia, conto delle misure anti-dumping, delle clausole di salvaguardia contro sconvolgimenti del mercato interno e degli ostacoli non tariffari, come gli standard per l’import.

Finito il tempo delle concessioni americane ai Paesi meno prosperi, oggi Trump vuole riportare gli scambi su un piano di parità di condizioni. Nondimeno, questo atteggiamento comporta anche significativi danni per l’economia americana. Per ogni addetto alla produzione di acciaio che viene protetta dalle nuove, alte tariffe vi sono 46 addetti nelle industrie a valle, quelle utilizzatrici, che sono danneggiate dal rialzo dei costi già in corso. In altri termini, si protegge una produzione che contribuisce allo 0,2% del PIL nazionale, danneggiando industrie che formano il 5,8% del PIL.

Se poi il protezionismo americano innescasse ritorsioni commerciali da parte dei grandi blocchi, come annunciato, si giungerebbe a un conflitto commerciale con effetti opposti a quelli attesi. Negli USA si avrebbero rialzi dei prezzi, si incrinerebbe la competitività e l’innovazione con riflessi negativi su occupazione, commerci e crescita economica, si sconvolgerebbero i piani di produzione delle imprese, e si danneggerebbero le famiglie in quanto consumatrici. Conseguenze gravi anche per lo sviluppo dell’economia mondiale in quanto si porrebbe un freno oltre che ai flussi commerciali a quelli di tecnologia, che sono condizione per far avanzare la produttività, si ribalterebbero per qualche anno le ragioni di scambio a favore degli USA, e si rallenterebbe lo sviluppo economico dei paesi meno prosperi. Ripercussioni negative pure per la ripresa dell’economia italiana, che l’anno scorso si è piazzata all’ottavo posto tra i paesi esportatori verso gli USA e che vi ha venduto il 9% del suo export.

Vi è forse il pericolo di una duratura inversione dei processi di globalizzazione? Qualche segnale in questo senso è già presente per via della decisione di grandi imprese di spostare la produzione entro il recinto delle nuove barriere e si è accentuata la spinta alla regionalizzazione degli scambi e al bilateralismo negli accordi commerciali. Ma una grande inversione attualmente è poco probabile perché la globalizzazione nella storia economica ha conosciuto alti e bassi ma la connessa libertà degli scambi ha apportato pace invece di spingere a conflitti armati, ha dato prosperità a Paesi che ne erano privi traendo fuori dalla povertà milioni di persone, ha ridistribuito tra Stati i frutti della produzione e del commercio, ha favorito anche la parte competitiva dell’economia americana.

Sebbene l’America di Trump sembri aver dimenticato la lezione del disastro causato dal protezionismo dello Smoot-Hawley Tariff Act del 1930, probabilmente non si ritirerà dal libero scambio ma lo interpreterà attraverso la negoziazione di una miriade di accordi bilaterali in cui farà valere la sua forza economica senza concessioni asimmetriche. Non sarà, tuttavia, la potenza egemone negli scambi, perché dovrà competere e venire a patti con altri poli economici altrettanto forti, mentre per le altre economie non resterà che aggregarsi attorno a questi poli a seconda dei loro interessi economici e politici per avere qualche voce in capitolo.

 

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