Le aspettative che hanno preceduto la recente riforma portuale Delrio sono andate per la maggior parte deluse: la normativa di settore è rimasta al palo proprio mentre l’intero sistema del trasporto marittimo è coinvolto in una rapida e costante crescita. Se è indubbio che la Legge 84/1994 ha mandato in soffitta il vecchio modello di governance di marca schiettamente pubblicistica a favore del noto modello di landlord port authority, è altrettanto vero che l’ultimo intervento normativo (il Decreto legislativo n. 169 del 4 agosto del 2016) si è rivelato un mero ritocco di cosmesi capace soltanto di eludere le richieste di misure più coraggiose che erano giunte dagli operatori del settore. In assoluta controtendenza con le richiamate spinte evolutive e i bisogni espressi dal comporto della logistica (costituito da portualità, retroportualità e regime giuridico delle infrastrutture), il legislatore delegato ha infatti optato per un riaccentramento allo Stato del governo dei porti, spogliando così le neonate Autorità di Sistema Portuale di ogni ibridazione in quanto espressamente ricondotte al novero degli enti pubblici non economici di rilevanza nazionale.
La principale novità della riforma consiste nella riduzione del numero delle Autorità Portuali, passate dalle originarie 24 alle attuali 15, per effetto di un’operazione di accorpamento che lascia tuttavia nei porti accorpati e non più sede di Autorità un ufficio territoriale con il compito di esercitare le funzioni delegate dal Comitato di gestione (ex Comitato portuale): coordinare le operazioni di porto, rilasciare le concessioni di durata non superiore a quattro anni nonché svolgere compiti relativi alle opere minori di manutenzione ordinaria in ambito portuale.
A questa novità si aggiunge lo snellimento della composizione dello stesso Comitato portuale, di cui non fa più parte la precedente pletora di rappresentanti delle associazioni datoriali e sindacali. Una semplificazione soltanto apparente, dal momento che questi ultimi siedono tutti nell’Organismo di partenariato della Risorsa mare, che affianca il Comitato di gestione con funzioni consultive in numerosi vitali ambiti: dall’adozione del piano regolatore del sistema portuale e del piano operativo triennale alla determinazione dei livelli dei servizi resi nell’ambito del sistema portuale, dal progetto di bilancio preventivo e consuntivo alla composizione degli strumenti di valutazione dell’efficacia, della trasparenza, del buon andamento della gestione dell’Autorità di Sistema Portuale.
C’è chi polemicamente ha sostenuto che, a seguito della riforma, le attuali AdSP non siano altro che amministratori di condominio (‘housekeepers’) che si limitano a svolgere attività di ordinaria amministrazione come la manutenzione e gestione delle aree portuali, la meccanica applicazione delle disposizioni normative vigenti in tema di rilascio ed efficacia delle concessioni nonché di sicurezza sul lavoro e nei porti. Sta di fatto che queste sono prive di una reale autonomia finanziaria e funzionale, in quanto enti pubblici non economici sottoposti al potere di indirizzo e controllo dell’amministrazione centrale.
Si perpetua probabilmente l’errore di voler preservare la specialità del settore, che non appare più giustificabile alla luce dell’evoluzione giuridica, risultando piuttosto come un baluardo mantenuto a protezione di interessi economici troppo deboli per accettare l’apertura del mercato alla concorrenza dei traffici a livello internazionale. Il ritardo accumulato dal nostro sistema portuale da un punto di vista di dotazione infrastrutturale e di assetto di governo rispetto ai principali competitor a livello europeo richiede invece l’adozione di misure coraggiose.
Una revisione radicale del nostro ordinamento portuale non può che passare dalla creazione di un disegno di rete veramente integrato – a livello di disciplina normativa, di governance e di pianificazione – e che passi dall’istituzione di macro-aree logistiche includenti i porti. Affinché l’offerta dei servizi portuali e logistici non si disperda, deve essere inoltre approntata una scelta molto nitida di politica dei trasporti, coerente con le scelte compiute ai fini della creazione di uno spazio unico europeo dei trasporti. Occorre quindi superare il mero accorpamento amministrativo delle Autorità portuali, potenziando gli scali alla radice dei corridoi, con l’assegnazione mirata delle risorse pubbliche allo scopo di dare luogo ad alcune basi terminalistiche/centri di accumulazione del traffico riforniti con servizi finanziari evoluti in grado di competere con i terminali del Nord Europa. In altre parole, la scelta di politica industriale nel settore deve restare vincolata alla localizzazione delle piattaforme, che devono costituire la prosecuzione dei corridoi europei.
La creazione di più terminali in concorrenza fra loro in un mercato che si autoregoli, viste le criticità e il deficit competitivo del nostro sistema portuale, non può rappresentare una scelta strategica. L’eccessiva pluralità di offerta terminalistica pregiudica l’efficienza del sistema, essendo molto improbabile che la ferrovia riesca a supportare un’offerta di portualità che si sviluppi in modo frastagliato fra più basi in concorrenza fra loro.
Dovrebbe prevedersi un’ulteriore razionalizzazione dei porti ritenuti di interesse nazionale, concentrando l’offerta terminalistica in due/tre aree che fungano da polmone operativo del sistema, lasciando il resto alla legislazione regionale. Un approccio di segno regolatorio industriale imporrebbe, infatti, di dare luogo a forti soggetti industriali del Nord Ovest e del Nord Est a sostegno dei corridoi, pienamente responsabili e chiamati a garantire un vero e proprio servizio pubblico.
A una scelta di campo così radicale potrebbe conseguire l’istituzione di Autorità di ambito, capaci di muoversi nelle aree logistiche integrate, in posizione di reale neutralità e terzietà rispetto al potere politico. Nell’ambito degli scali portuali, invece, le singole attuali AdSP potrebbero essere trasformate in società partecipate dalle Regioni e dagli enti locali, in grado di svolgere – con i moduli propri del diritto commerciale – una reale ed efficace azione di promozione delle singole realtà portuali, anche stringendo partnership e alleanze strategiche con le Authority di scali portuali stranieri e con le grandi compagnie terminalistiche.
Nell’ottica di un abbandono della specialità di settore si potrebbe prendere in considerazione il superamento della disciplina demaniale, a proposito della quale è stato detto che «solo il genio dell’astrazione la può mantenere in vita, salvo poi dover in ogni momento risolvere gli intrighi che essa crea». Significherebbe aprire il mercato alle imprese impegnate nella costruzione di porti internazionali e nella loro gestione con l’affidamento delle singole infrastrutture a terminalisti operatori di traffico. L’efficienza del servizio – i vecchi usi pubblici del mare – si promuove infatti con la regolazione dei servizi, siano essi di interesse generale o meno, come dovrebbe essere attuata con un rinnovato regime autorizzatorio ex art. 16 ma senza prevedere aree pubbliche e aree private. Ciò corrisponde anche alla esigenza di un’accelerazione e una compartecipazione da parte di privati alla infrastrutturazione necessaria.
La complessità dell’attuale sistema, troppo frazionato e policentrico, ostacola il suo adeguamento infrastrutturale in tempi rapidi, con grave pregiudizio dell’intero comparto economico. L’auspicata concentrazione dell’offerta terminalistica dovrebbe infine favorire, anche ai fini programmatori, l’istituzione di un tavolo permanente di concertazione con i soggetti pubblici interessati, scandito da termini perentori e munito di adeguati strumenti di superamento dei contrasti.