Lo shipping vive di economie in salute, di scambi senza barriere, di accordi internazionali che agevolano le scelte imprenditoriali. Negli ultimi anni, un import/export vivace e competitivo è riuscito a tenere in piedi Stati come il nostro, con PIL molto bassi o negativi.
L’andamento del secondo semestre del 2019 dimostra l’elevata sensibilità del settore ad attività protezionistiche (USA), dazi e guerre commerciali. Anche a causa della congiuntura internazionale, in Italia non abbiamo assistito alla tipica ripresa post-estiva. Uno scenario ben più grave si è invece presentato nel trade Trans-Pacifico, dove minimi scostamenti sui volumi di scambio USA-CINA hanno fatto la differenza.
Per il 2020 si può immaginare un rallentamento della tensione tra gli Stati Uniti e la Cina (vinceranno gli interessi reciproci di medio periodo), mentre sulla questione Iran non mi sembra ci siano segnali di apertura/risoluzione, come per altro dimostrano i recenti accadimenti: l’uccisione del generale Soleymani rappresenta sotto questo punto di vista una drammatica escalation della tensione nel Golfo Persico.
Considerando che il PIL italiano per il 2020 è previsto essere a livelli di stagnazione, dobbiamo confidare nel miglioramento dello scenario internazionale per poter contare su un +1/1,5% di crescita del nostro import/export.
Per intanto, gli armatori si trovano a dover affrontare una serie di sfide, una delle quali rappresentata dall’entrata in vigore della nuova normativa internazionale voluta dall’IMO (International Maritime Organization) che impone un limite dello 0,5% alle emissioni di zolfo generate dal trasporto marittimo.
La scarsa disponibilità di carburante a basso tenore di zolfo (venduto per altro a prezzi alti) ha spinto le compagnie a puntare sulla migliore scelta alternativa (second-best), ovvero i depuratori dei fumi di scarico, scrubber, tanto onerosi quanto poco in linea con il mood ecologista degli ultimi tempi (specialmente quelli a circuito aperto).
Dall’esperienza storica sul bunker surcharge (BAF), recuperato dagli armatori in percentuali ben inferiori al 100%, immaginiamo che sarà molto difficile per le compagnie di navigazione riuscire a spostare sulle spalle della clientela la totalità dei costi extra legati al sulphur cap. Questo perché, nell’ambiente estremamente competitivo nel quale i carrier si trovano ad operare, la composizione del nolo marittimo (e terrestre, con le quotazioni door-door) diventa un all-in in cui le addizionali scompaiono, o sono soggette a negoziazione commerciale.
Più in generale, sono molti anni che gli armatori mostrano margini bassi o negativi. Alti e bassi nell’attività dello shipping di linea sono sempre esistiti, ma dal 2008 in avanti crisi prolungate e “globalizzate” hanno messo a dura prova le compagnie gestite meno efficacemente.
Questo ha portato a favorire dapprima i processi di concentrazione orizzontale tra liner di dimensioni simili, successivamente – esauriti i benefici di scala per questo tipo di operazioni – i carrier hanno puntato a generare nuovi flussi di cassa operando integrazioni verticali nella logistica terrestre e portuale, che si ritiene possieda marginalità superiori.
Gli effetti economici attesi, anche per questo tipo di iniziative, non sono però sempre certi. La bassa marginalità di profitto rimane ad oggi un problema con cui chi opera nel settore è costretto a fare prima o poi i conti. Forse è anche questo il motivo che ha spinto le istituzioni (in primis quelle europee) a riservare un trattamento di favore alle linee di navigazione.
Non è un caso che l’UE si sia detta favorevole a rinnovare senza modifiche la Consortia Block Exemption Regulation, ovvero lo schema normativo che permette alle compagnie attive nel trasporto di container di stabilire alleanze operative in deroga alla normativa comunitaria “standard” in materia di antitrust. Si tratta di una misura che l’armamento considera fondamentale, in quanto consente di assecondare le occasioni di mercato garantendo flessibilità ed efficienza del servizio.
Anche se meno remunerativi rispetto al passato, i processi aggregativi sono di fatto una tappa obbligata per chi voglia sopravvivere nella giungla della competizione. Gli armatori da tempo sono scesi a terra diventando terminalisti e ora cercano di controllare anche la filiera logistica, attivando nuove sinergie in fronti sino ad oggi poco esplorati come quello dell’Electronic Data Interchange (EDI).
Diverse società si sono recentemente associate (nella Digital Container Shipping Association) per ridefinire gli standard IT e security e imporre nel medio periodo la propria block-chain a tutti gli stakeholder. Stupisce che le Autorità di qualsiasi ordine e grado non interferiscano in questo processo, che potrebbe presto portare le linee di navigazione a fissare nuovi standard di settore e a modificare quelli esistenti.
Così come è da tenere d’occhio un altro fenomeno in crescita: quello dell’instant confirmation della prenotazione dei container a bordo delle navi. Il trend è in crescita anche se per il momento i numeri sono ancora non del tutto rilevanti: gli investimenti stanno però aumentando in modo esponenziale. È evidente l’impatto organizzativo di queste scelte: sicuramente, si accentuerà la tendenza alla centralizzazione di alcune funzioni in alcune “location-Mondo”. Per il cluster di fornitori delle Compagnie, la centralizzazione è già un dato di fatto oggi, con gli uffici procurement concentrati a livello Europeo.
Il gigantismo navale è ancora un altro aspetto di cui non si può non parlare. Ragionando ex-post, è un fatto che da un doppio errore di valutazione armatoriale sia nata un’inutile corsa alla realizzazione di navi sempre più grandi.
Il primo errore è stato di ordine economico. Semplificando, si credeva che sull’export la Cina avrebbe mantenuto elevati tassi di crescita per un lungo periodo. Al contrario, il rallentamento è stato sensibile, con il riposizionamento dell’impero del Dragone sui consumi interni. Il secondo errore è stato di ordine commerciale. Chi ha iniziato a costruire le prime navi da 18-20.000 TEU riteneva che la concorrenza non avrebbe seguito l’esempio, ma così non è stato.
Il risultato è stato insostenibile per le singole compagnie, ma gli investimenti sono stati mantenuti tramite la creazione di Alleanze operative, che hanno finito con l’esercitare una enorme pressione infrastrutturale non solo sui porti ma anche sui soggetti pubblici cui sono devoluti i compiti di indirizzo e controllo in ambito portuale.
Le istituzioni, in particolare, non possono più stare alla finestra ma sono oggi chiamate a giuocare un nuovo ruolo proattivo, strategico, in una molteplicità di partite dal cui esito dipende la possibilità dello sviluppo dei Paesi di appartenenza: da questo punto di vista non sarà irrilevante sapere in che modo verranno ridefiniti i modelli di governance delle reti Ten-T e quale impatto avranno i singoli Stati membri sulle scelte di vision della Commissione Europea.
Ma in questa nuova era geologica (quella del gigantismo navale; delle aggregazioni, orizzontali e verticali; della block chain e degli operatori logistici come Amazon, che hanno strategie a 360° che includono la via marittima oltre che quella aerea e ferroviaria) nessuno può più permettersi di stare alla finestra.
La situazione è questa e bisogna conviverci: rispetto a 10 anni fa il nostro settore è cambiato con la stessa evidenza con cui migliaia di anni fa si passò dall’età della pietra a quella del ferro. Il perimetro portuale si è molto modificato nell’arco di due lustri. I parametri tradizionali con i quali si misurava la competitività di un porto (leggi le performance degli operatori), non sono più sufficienti.
Governare questi processi e comprenderne le dinamiche è oggi quanto mai necessario. I terminalisti, soprattutto, dovranno necessariamente (per)seguire i nuovi trend di integrazione verticale, pena il veloce depauperamento dell’offerta complessiva di servizio: o sapremo farci parte attiva di questo nuovo mondo oppure saremo condannati alla irrilevanza.