Articolo pubblicato su “Comune Notizie” nn. 12-13, ottobre 1994 – marzo 1995
Nel corso dei secoli il porto di Livorno ha subìto trasformazioni radicali dovute ai singoli periodi storici e alle congiunture economiche internazionali che indubbiamente incidevano sui traffici e sul sistema di collegamento marittimo di cui lo scalo era uno dei punti di riferimento. L’evoluzione del porto può essere delineata facendo riferimento alle leggi e agli ordinamenti di volta in volta emanati dall’autorità competente per la gestione dell’approdo marittimo. Si tratta di documenti antichi contenuti negli archivi pubblici di Livorno o pubblicati su opere relative alla storia del porto, dal nascere della città fino al periodo dell’unificazione.
Istruzioni granducali per il servizio del “Guardiano del porto” (1559)
Uno dei primi regolamenti di basilare importanza nella gestione del porto labronico fu emanato nel 1559. Lo scalo livornese stava sempre più espandendosi con i traffici che registravano aumenti considerevoli. Le autorità granducali decisero quindi di emanare una serie di istruzioni per quello che allora veniva definito il “Guardiano del porto”. In tale documento, conservato presso l’Archivio di Stato di Livorno nel repertorio della Sanità, una delle prime cose da rilevare è la diretta dipendenza del Guardiano dal Governatore della città e dal Provveditore della Dogana che avevano potere decisionale in materia portuale, marittima e sanitaria nonché nell’ambito del buon ordine dei moli e delle banchine.
Nelle istruzioni granducali del 1559 uno dei principali compiti del Guardiano era quello legato al pagamento di tutti gli ancoraggi delle navi, barche, pescherecci e ogni altro tipo di “legno” in sosta nel porto. Il Guardiano doveva inoltre controllare che le navi e le barche non zavorrassero e pulissero le stive all’interno della darsena, gettando materiale in acqua. All’arrivo delle imbarcazioni provenienti da altri Paesi il Guardiano provvedeva ad accoglierle al largo e tenendosi a distanza di sicurezza doveva informarsi sul nome della nave, sul nome del capitano o padrone, sul numero dei marinai e passeggeri a bordo. Di primaria importanza era poi il controllo di “buona sanità” per appurare eventuali stati infettivi e malattie dell’equipaggio. Nel caso si sospettassero contagi, il Guardiano ritirava la patente di sanità e la portava in dogana dal Provveditore che aggiornava le pratiche e decideva gli ulteriori controlli da compiere.
Quando non doveva uscire per effettuare i servizi che abbiamo finora indicato, il Guardiano non doveva mai abbandonare la guardia della Bocca e lì era tenuto ad assistere i vascelli e le barche in transito, annotando sul proprio registro i vari movimenti portuali.
La parte finale delle istruzioni granducali riguardava le regole di disciplina da applicare negli uffici della Bocca del porto, da dove il Guardiano non doveva assentarsi se non sostituito e dove non poteva alloggiare nessuno se non le guardie pagate dalla dogana. Il Guardiano e i suoi uomini non potevano ricevere presenti di alcuna sorta e avevano l’obbligo di tenere comportamento corretto anche fuori dall’ambito del lavoro.
In questo regolamento granducale riguardante l’attività del Guardiano del porto si possono quindi ritrovare i primi tentativi di coordinare il controllo e il lavoro all’interno dello scalo marittimo livornese. Il potere era indubbiamente gestito dall’autorità politica e di governo locale, con il Guardiano semplice esecutore di ordini. Un ruolo questo che comincerà a modificarsi, nel senso di un sempre più crescente potere decisionale e indipendenza a partire dalla fine del XVII secolo, momento in cui nasce la figura del Capitano del Porto.
“Ordini per il regolamento delle Cose di Mare” (1693)
Durante il periodo mediceo l’ufficio della Bocca del porto era alle dirette dipendenze del Governatore e soprintendeva, con funzioni di polizia portuale e sanitaria, agli ancoraggi, alle concessioni della ‘libera pratica’ ai bastimenti con patente sanitaria ‘netta’, al buon ordine del porto e del molo. Tale materia era regolata dagli “Ordini per il regolamento delle Cose del Mare” emanati il 2 luglio 1693. Si tratta di tredici provvedimenti che indicavano puntigliosamente istruzioni e regole da seguire all’interno dello scalo marittimo delineate per conto del granduca dal marchese Marco Alessandro del Borro, Governatore della città, e dai suoi collaboratori.
Ai capitani, padroni e marinai che giungevano in porto con le proprie imbarcazioni si ordinava di ormeggiare «nella prima riga, o andana, lungo il molo e distendere in linea tutte le loro ancore dentro, et lungo ai pali». I vari bastimenti dovevano avere gavitelli e segnali in modo da poter riconoscere il punto di ancoraggio, così da evitare danni e pericoli per le altre imbarcazioni. I “legni” appena giunti dovevano poi dar cavo in terra, passando le funi sotto quelle dei bastimenti vicini.
Nel V provvedimento si ricordava al Custode del molo di recarsi ogni mattina con la propria barca a controllare tutte le ancore. Se riscontrava qualche posizione sbagliata, non conforme a quanto ordinato, doveva recarsi a bordo della nave e avvertire il Capitano affinché si rimediasse.
Negli altri provvedimenti si facevano chiari riferimenti al posizionamento dei bastimenti ancorati, a seconda della portata, si proibiva di gettare zavorra in porto o sulle spiagge senza la licenza e le indicazioni sul punto esatto dove compiere l’operazione, si indicavano infine le pene pecuniarie per ogni infrazione, che variavano dai 15 ai 25 ducati.
Il XIII e ultimo provvedimento riguardava invece la particolarità dei furti di gavitelli posti sopra le ancore, furti sembra molto frequenti. Chi veniva colto in flagrante rischiava la pena detentiva oltre alla multa di 50 scudi.
Gli ordini del 1693 rappresentarono quindi un’altra importante integrazione alla legislazione marittima del porto di Livorno che si apprestava a vivere la politica del riformismo illuminato lorenese, con tutti i suoi vantaggi ma anche con le difficoltà legate al clima politico-economico internazionale. In questo periodo gli affari della marina mercantile passarono alla competenza del Consiglio di Commercio in base all’Editto di Marina Mercantile del 10 settembre 1748.
Editto di Marina e Navigazione Mercantile Toscana (1748)
La prima opera legislativa organica indirizzata alla gestione del porto di Livorno e delle sue realtà peculiari è generalmente riconosciuta quella dell’ottobre 1748. Durante il regno di Francesco II di Lorena, il principe di Craon e i suoi due collaboratori Anton Tornaquinci e Roberto Pandolfini riunirono e organizzarono in sei capitoli e 62 articoli i dettami principali per la gestione del porto e dei suoi traffici.
L’introduzione dell’Editto faceva proprio riferimento al particolare momento che stava vivendo lo scalo marittimo livornese, con il commercio in fase di crescita ma bisognoso di ulteriori stimoli e agevolazioni e con le manifatture collegate al lavoro portuale che dovevano essere aiutate attraverso la volontà di facilitare i rapporti con gli acquirenti esteri.
Non appena entrato in vigore, il documento divenne la base fondamentale dell’organizzazione marittima e introdusse disposizioni come quelle riguardanti i rapporti tra capitano ed equipaggio, i salari, i contenziosi e le pratiche di arrivo e partenza che ritroveremo, magari adeguate ai tempi, in tutte le legislazioni successive fino ai nostri giorni.
Il Titolo I era riservato alle diverse giurisdizioni sopra gli affari della marina toscana. Alla direzione e soprintendenza delle varie questioni in ambito portuale fu predisposto il Consiglio di Commercio di Livorno, che doveva esaminare e risolvere le questioni concernenti la polizia e il buon governo. Tra le sue competenze si trovavano anche le cause civili spettanti alla Marina e Navigazione Mercantile Toscana che non superavano la somma di cento lire nonché le cause criminali che richiedevano solo pene pecuniarie. Il sesto articolo riservava poi al Capitano del porto tanto l’esame delle patenti e dei passaporti quanto la visita dei bastimenti.
Il Titolo II era invece dedicato ai requisiti, agli obblighi e ai compiti del capitano o padrone delle navi che arrivavano nel porto di Livorno. L’età minima per poter assumere il ruolo di capitano era fissata a 21 anni compiuti. L’aspirante veniva preventivamente esaminato davanti al Consiglio da due capitani che ne valutavano la conoscenza delle regole della navigazione, l’abilità e la fedeltà. Nessun suddito toscano aveva la possibilità di comandare navi o bastimenti di nazionalità straniera senza la licenza del Consiglio.
L’articolo 3 prevedeva invece l’obbligo per il capitano di imbarcazioni con portata superiore alle 50 tonnellate di tenere un libro-giornale nel quale dovevano essere annotati: il tipo di spese sostenute; i nomi e le nazionalità di tutti gli ufficiali, marinai, soldati e mozzi con i salari loro accordati; la qualità del carico; la rotta tenuta durante i viaggi e i vari casi occorsi durante la navigazione. Le mancanze del capitano nell’osservanza di tali obblighi venivano punite con pene pecuniarie. Per i bastimenti con equipaggi fino a 35 persone era prevista la presenza a bordo di un chirurgo “matricolato nell’arte”. Se l’equipaggio arrivava alle 60 unità erano anche previsti un sotto-chirurgo e un cappellano.
Gli articoli dal 9 al 19 prevedevano invece altri compiti, come la previsione di vettovagliamenti, il controllo del carico della merce in stiva e dei turni di guardia. All’entrata del porto di Livorno i capitani o padroni erano tenuti a scaricare la polvere, le lane e altre merci soggette a riscaldarsi e a prender fuoco. Sempre in ambito di sicurezza era previsto il rapporto costante tra il capitano e i ministri di Sanità, che dovevano essere informati su eventuali pericoli.
Nei sei articoli del Titolo III veniva invece delineata la figura «de proprietarj, porzionevoli, deputati e scrivani». I proprietari di tutto il bastimento o di una sua parte dovevano essere sudditi toscani. Le navi con portata maggiore alle 50 tonnellate di proprietà di più persone dovevano avere un deputato che rappresentasse la proprietà per la «buona e fedele amministrazione». Per qualsiasi spesa o per il noleggio del bastimento il capitano doveva ricevere il consenso del deputato. Era poi obbligatorio nominare uno scrivano che aggiornasse il libro-giornale con i dati relativi al vettovagliamento, all’equipaggio e ai suoi salari, alle merci e alle varie deliberazioni. Lo scrivano era autorizzato a ricevere anche il testamento, o ultima volontà, alla presenza del capitano e di altre due persone qualificate dell’equipaggio.
Il Titolo IV affrontava l’importante capitolo degli ufficiali marinai e altra gente dell’equipaggio. La loro scelta era riservata esclusivamente al capitano, che però era obbligato a prendere per mozzi due o tre giovani toscani. Inoltre non poteva ingaggiare personale privo della licenza del Consiglio e accogliere fuggitivi da altre navi. Fuori dal Granducato nessuno poteva essere licenziato dal bastimento, eccettuato il caso di vendita dello stesso. Venivano poi regolati i termini per l’ingaggio e per l’imbarco del personale. Quando lo riteneva opportuno, il Capitano del porto di Livorno doveva inviare una persona di sua fiducia a controllare i vari equipaggi nonché il rispetto delle regole di comportamento tra il capitano e il resto dell’equipaggio. La congiura o il complotto contro il comando prevedevano la pena di morte, decisa dal tribunale competente, mentre pesanti provvedimenti erano previsti per i coinvolti nelle risse e per chi si assentava senza motivo dal posto di lavoro o dal turno di guardia.
Il Titolo V trattava delle paghe, di cui si indicavano le modalità di riscossione, gli anticipi e il saldo. Ai giovani presi per mozzi, nel loro primo viaggio, il capitano o padrone doveva assicurare vitto e vestiario. Dal secondo viaggio in poi era tenuto a dar loro un salario proporzionato alle loro qualità. L’articolo 9 specificava poi l’importo del contributo che ogni ufficiale, soldato e mozzo era tenuto a consegnare alla Cassa del riscatto dei sudditi catturati e fatti schiavi all’estero.
Il Titolo VI riguardava infine le pratiche per la partenza, il viaggio e il ritorno dei vari bastimenti. Nessuna nave o bastimento di portata maggiore alle 50 tonnellate poteva mettersi in viaggio fuori del Granducato senza aver prima ottenuto la licenza del Consiglio di Commercio. Le navi in arrivo dovevano entro le 24 ore far pervenire al Consiglio relazioni con indicato il nome del capitano, la portata e il carico del bastimento, il luogo di provenienza e quello di destinazione. Le navi e gli altri vascelli non potevano lasciare Livorno senza aver prima ricevuto la visita del Capitano del porto, che passava in rassegna l’equipaggio. Durante il viaggio le navi con patente toscana dovevano inalberare la bandiera gialla a piccole strisce nere, arricchita dalle armi imperiali. Il pilota era poi tenuto ad aggiornare il libro di bordo con i dati della rotta e ogni altra informazione sulla navigazione. Al rientro nel porto di Livorno l’ormeggio doveva essere effettuato solo dopo una ulteriore visita del Capitano dello scalo marittimo labronico.
Questo Editto, tranne la parentesi del periodo di dominazione francese, rimase in vigore con modifiche e integrazioni fino all’annessione della Toscana al Regno d’Italia.
“Regolamento per il porto, la darsena e i fossi di Livorno” (1840)
Dopo le vicende legate alla Rivoluzione francese e al periodo napoleonico, che incisero profondamente sulla vita e sull’assetto del porto labronico, con la Restaurazione e la ripresa economica degli anni 20-30 l’immagine dello scalo marittimo di Livorno andò mutando nel suo complesso. Le strutture portuali venivano ampliate progressivamente, i traffici facevano registrare aumenti rilevanti e alle banchine cominciavano a ormeggiare anche i grandi bastimenti a vapore, la vera rivoluzione del secolo nel campo marittimo.
Per fronteggiare la nuova situazione la Real Consulta emanò nel luglio del 1840 un nuovo “Regolamento per il porto, la darsena e i fossi della città”. Nel quarto e ultimo capitolo del testo veniva delineata la giurisdizione e indicate le competenze all’interno del porto. La direzione superiore locale del governo, della disciplina e della polizia del porto e delle spiagge spettava al Consigliere di Stato Governatore Civile e Militare di Livorno, il quale per i relativi affari doveva mantenersi in contatto con il Regio Dipartimento di Stato. In caso di mancanza, assenza o impedimento del Governatore, la direzione superiore locale del porto era delegata all’Auditore Consultore incaricato in tali contingenze come “Pro-Governatore”.
L’altra figura prevista nel Regolamento ed entrata ormai nella tradizione giuridica della legislazione portuale era quella del Capitano del porto che, alle dirette dipendenze del Governatore, presiedeva all’Ufficio della Bocca svolgendo praticamente i compiti di disciplina e polizia. Per lui lavoravano gli ufficiali custodi del molo e della darsena, che dovevano vigilare all’esatta applicazione delle norme regolamentari. I componenti dell’ufficio della Bocca avevano la facoltà dell’arresto dei trasgressori delle disposizioni, facoltà assegnata al fine di garantire l’utile ed efficace esercizio delle loro funzioni senza però limitare l’azione delle autorità governativa e di polizia della città, che potevano estendere anche al porto la loro vigilanza per la tutela della pubblica e privata sicurezza.
Nel Regolamento venivano previste poi una serie di norme sulla durata degli arresti, sulle formalità per le visite e perquisizioni a bordo dei bastimenti anche con bandiera straniera che una volta entrati in porto venivano in tutto e per tutto assoggettati alla giurisdizione dell’autorità governativa e giudiziaria del Granducato.
Nel penultimo articolo si specificava che il territorio marittimo delle autorità governative civili e militari e dei magistrati dell’ordine giudiziario si estendeva a tutto il circondario delimitato a levante e a ponente «dal littorale, dalla Torre scogliera e Linea della Meloria». Il Regolamento in questione indicava gli altri capitoli rispettivamente alla rada e al molo, alla darsena e fossi e alle disposizioni generali riguardanti la polizia, il buon ordine e la conservazione del porto.
Per quel che riguarda l’approdo in rada e nel molo vennero dettati degli obblighi generali dei naviganti che giungevano in porto. Essi dovevano prestare piena osservanza delle leggi e regole marittime a tutela della pubblica salute e uniformarsi a quanto veniva loro ordinato dal Capitano del porto e dagli ufficiali della Bocca nonché dal Caporale delle guardie di Sanità.
Si indicavano poi le regole fondamentali dell’ancoraggio in rada, con particolari riferimenti alle distanze da tenere tra i vari bastimenti. Era proibito l’ingresso in porto nelle ore notturne per le navi di grossa portata. Uno specifico articolo proibiva a chiunque di avvicinarsi ai bastimenti prima dell’accurata ispezione dei capitani, che dovevano anche presentarsi all’ufficio del porto per il disbrigo delle varie pratiche. Una sezione del capitolo era interamente dedicata al collocamento dei bastimenti nelle Andane del molo, con le ancore gettate a prua verso l’ufficio della Sanità, tenendo conto delle regole sulla sicurezza.
Il Regolamento faceva riferimento anche al luogo dove erano tenuti ad ormeggiare i bastimenti a vapore che in quei tempi cominciavano ad arrivare numerosi nel porto labronico, seguendo le linee di navigazione che partivano da Napoli e giungevano fino a Marsiglia. Tutti i bastimenti ancorati al molo dipendevano dagli ordini che venivano impartiti dall’ufficio del porto per quel che riguardava tutte le variazioni di ormeggio decise a seconda delle situazioni. Era inoltre proibito scaricare qualsiasi tipo di materiale sulla banchina del porto senza espressa licenza del Capitano del porto.
Al fine di controllare il rispetto degli ordini, gli ufficiali custodi del molo compivano ogni mattina un giro con la loro lancia e intervenivano dove era necessario, dando poi notizia di eventuali reati commessi da capitani o padroni e arrivando addirittura a redigere un processo verbale.
I bastimenti in partenza dal molo erano tenuti a ritirare il biglietto di ‘sortita’ rilasciato dall’ufficio di Sanità e caricare la ‘polvere da botta’, riconsegnatagli dalla Guardia di Sanità, una volta usciti dal molo.
Il capitolo II affrontava il problema della Darsena, che da tempo doveva subire il carico pesante delle molte attività che si svolgevano: dallo scarico merci alle operazioni dei pescherecci, alla costruzione e raddobbo dei bastimenti. Le imbarcazioni che entravano in Darsena si sottoponevano alla visita doganale nella forma e nei modi voluti dall’amministrazione della Finanza e dovevano tenere personale di guardia durante le ore notturne. In Darsena poi non si potevano cominciare a costruire bastimenti o innalzare carene senza aver avuto la licenza del Governatore, diretta al Capitano del porto, nella quale tra le altre cose si indicava il luogo dove costruire e quello dove depositare il legname. Vi erano normative che tendevano a evitare il deposito di ingombri che potevano ostacolare i lavori.
I cannoni, mortai, bombe, granate e generalmente qualsiasi tipo di artiglieria e munizioni da guerra non potevano essere lasciati nei cantieri o nelle strade della Darsena ma depositati nei locali predisposti. Una sezione del capitolo prendeva in esame tutte le precauzioni da adottare per evitare incendi nella Darsena. Non si potevano introdurre polvere da sparo, paglia e fieno; si dovevano evitare poi spari e fuochi artificiali. Non si poteva “dar carena e fuoco” senza una apposita licenza e nelle ore notturne erano sospese le operazioni di scarico e carico dei bastimenti: interruzione che iniziava poco prima del tramonto e durava fino all’alba del giorno successivo. L’articolo 59 prendeva invece in esame i pericoli di interramento del porto, per cui si proibiva di gettare in acqua zavorra, spazzatura o rottami.
Il Regolamento così strutturato rimase in vigore fino alle riforme del periodo dell’annessione al Regno d’Italia. Nel 1860 il comando della Marina Militare venne staccato dal comando del porto. Con Decreto Reale del 5 luglio di tale anno vennero istituiti i circondari marittimi per il servizio mercantile, diretti dai Consoli di Marina. Sempre nel 1860 furono affidati ai Capitani di porto gli affari relativi alle matricole dei bastimenti e della gente di mare. Con il 1866 furono infine istituite le attuali Capitanerie di porto. Per quella con sede a Livorno esiste un archivio con gli affari divisi in categorie e classi, secondo il titolario della Capitaneria.