Letto il chiarissimo punto che fa Massimo Provinciali su Port News a proposito del Paradosso del comma 7 dell’art. 18 della l. n. 84/1994, al lettore – e soprattutto all’interprete – non resta che prendere atto con piena condivisione di quanto scrive un pubblico funzionario il quale, a tacer d’altro, risulta competente e consapevole del ruolo che la buona amministrazione deve svolgere nell’interesse dello sviluppo dei porti.
In tema, e in tempi non sospetti, nel libro I porti italiani e l’Europa scritto con Sergio M. Carbone e pubblicato ormai quasi un anno fa, avevo parimenti espresso la mia opinione in ordine alla ormai da tempo intervenuta obsolescenza dell’ articolo che dispone il divieto, per un operatore, di detenere il controllo di più di un terminal nello stesso porto. Per un ordine vario di motivi.
Molti di questi si sovrappongono perfettamente a quanto scrive Massimo Provinciali, ma ad essi – se non altro per richiamare al lettore il sistema di riferimento da cui nasce la legge n. 84/1994 – aggiungo le regole previste dall’Unione Europea: esse, infatti, non solo sono all’origine dell’intera legislazione di riordino dei nostri porti, ma forniscono soprattutto lo strumento normativo semplice e al contempo doveroso per risolvere in concreto i problemi che possono porsi alle Autorità di sistema portuale (AdSP), qualora poste di fronte alla norma “paradossale” di cui si discute.
In particolare, non credo possano esservi dubbi sul fatto che quando venga in rilievo una limitazione alle libertà fondamentali previste dal Trattato FUE, le norme nazionali che limitano tali libertà fondamentali siano incompatibili con le prime: in questi casi, usando la terminologia classica della Corte di Giustizia, le libertà euro-unitarie «ostano», quindi, alla loro applicazione.
Non è dubbio, e lo mette in rilievo anche Massimo Provinciali, che un terminalista svolga servizi in un contesto di mercato ampio, e transfrontaliero, che con sostanziale certezza vengono fruiti anche da utenti stabiliti in Stati membri diversi dall’Italia. Se così è, il concessionario terminalista è un prestatore di servizi ai sensi degli articoli 56 e seguenti del Trattato FUE. La possibilità, per il terminalista, di poter espandere la propria attività in aree ulteriori rispetto a quelle oggetto della propria concessione originaria, è connaturata a ogni attività di impresa, alla stessa stregua di qualunque altro soggetto imprenditoriale che vuole ampliare il proprio stabilimento produttivo o i propri uffici in un’ottica normale di crescita.
In questa prospettiva, mi pare indiscutibile che l’art. 18.7 della l. n. 84/1994 individui quindi, e tra l’altro, una restrizione alla possibilità del concessionario terminalista di espandere la propria attività. E quindi una limitazione alla libertà di quest’ultimo di prestare servizi nel mercato interno.
È noto che non tutte le restrizioni sono di per sé in contrasto col diritto UE. Tuttavia, al fine di essere compatibili con le norme unionali, le restrizioni devono essere tra l’altro giustificate da esigenze di interesse generale, necessarie e proporzionate. Ce lo dice la Corte di giustizia da sempre, e comunque, per quel che riguarda i servizi, quanto meno fin dalla celeberrima sentenza del 4 dicembre 1986, n. 205/84, Commissione c. Germania. Per inciso, i criteri sono cumulativi, e quindi devono tutti sussistere onde giustificare una restrizione alle libertà fondamentali.
Ora, quanto all’interesse generale, possiamo assumere che esso corrisponda alla tutela della concorrenza. Del resto, questa appare la ratio della norma all’indomani dell’entrata in vigore della l. n. 84/1994 (26 anni fa…), come correttamente ci ricorda anche Massimo Provinciali.
Ciò posto, certamente il test non viene superato per quel che concerne i criteri della necessità e della proporzionalità. Non il primo, in quanto già esistono norme antitrust in grado di impedire la creazione, il rafforzamento e finanche l’abuso di una posizione dominante sul mercato. A conferma tra l’altro che, in Italia, il divieto di gold plating andrebbe praticato nei porti e non solo in misura sensibilmente maggiore di quanto non avvenga. Non il secondo, poiché all’evidenza un divieto tout-court di possedere più di una concessione demaniale nello stesso porto è un limite del tutto sproporzionato rispetto all’esigenza di monitorare, nel mercato rilevante, la persistenza di un grado di concorrenza efficace. Tanto meno giustificata appare questa restrizione quando il “divieto” dell’art. 18.7 è stato da molti anni ignorato in qualsiasi porto italiano in caso di “estensioni” dell’ambito demaniale in concessione allo stesso terminalista (i.e. di ampliamenti del compendio in concessione allo stesso terminalista scaturenti dall’acquisizione di concessionari adiacenti o di nuovi spazi demaniali in precedenza non disponibili). Una tale prassi appare infatti anche discriminatoria, ciò determinando un’ulteriore violazione, tra l’altro, delle norme UE e del test di cui abbiamo appena parlato.
In questa situazione, come Massimo Provinciali sono anche io ovviamente a favore dell’abrogazione dell’art. 18.7, anche solo per “pulizia normativa”. Ma vorrei aggiungere, rispetto a bozze di emendamenti circolati tempo fa, che abrogazione vuol dire abrogazione: e quindi non sono d’accordo con l’idea di modificare il divieto sostituendovi formulazioni ambigue che possano comportare, in capo alle AdSP, valutazioni complesse in ordine all’accertamento del grado di concorrenzialità in un determinato mercato. Alla bisogna, abbiamo già l’Antitrust: e lascerei accuratamente perdere altri adempimenti in capo al già stremato mondo delle nostre imprese e amministrazioni.
Ma torno alla riflessione iniziale: perché il diritto UE è utile in concreto? Perché anche senza abrogazione ci consente di procedere proprio nel senso indicato da Massimo Provinciali (e, aggiungo, per fortuna da molti altri): infatti, quando una norma interna è incompatibile col medesimo, essa si disapplica. Nei porti italiani, il principio fu scolpito espressamente nella sentenza 12 febbraio 1998, n. C-163/96, Silvano Raso; ma se anche non la si volesse, o dovesse, disapplicarla tout-court, sempre il diritto dell’Unione impone al soggetto interessato, sia esso un giudice, o ancor meglio un’amministrazione, come l’AdSP, di interpretare il diritto interno in modo conforme a quello UE, e quindi di impedire il verificarsi di restrizioni ingiustificate alla libera circolazione dei servizi (cfr. tra tante la sentenza 5 ottobre 2004, n. C- 397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a.).
Così, senza bisogno di alcun intervento del legislatore, che magari di questi tempi è altrimenti affaccendato, è possibile gestire in via ordinaria la coesistenza dell’art. 18.7 con le esigenze in continua evoluzione dei nostri porti.