Interviste

Colloquio con Salvatore d'Amico

Le loro prigioni

di Marco Casale

La pandemia Covid sta sequestrando più di 200 mila marittimi a bordo delle proprie navi, dalle quali molti non scendono da oltre un anno: un dramma silenzioso e dimenticato che il mondo non sembra aver fretta di risolvere.

«Si sta perpetrando un’ingiustizia assurda che colpisce non soltanto chi oggi si trova in mare aperto, lontano da casa e dai propri cari, ma anche chi, restando a terra, non può imbarcarsi e assicurare con il proprio lavoro il sostentamento della propria famiglia» denuncia Salvatore D’Amico, direttore della flotta dell’omonima shipping company attiva nel dry bulk e prodotti raffinati.

«In questo periodo non abbiamo lesinato forze e risorse per fare in modo che anche in piena fase di lockdown venisse consentito a chi aveva un’emergenza di tornare a casa» spiega con giustificato orgoglio. «Nell’ultimo mese siamo così riusciti a garantire il cambio del 30% della forza lavoro che si trovava a bordo delle nostre navi con un contratto scaduto».

Purtroppo, non tutti hanno tenuto la stessa linea di condotta: «A un recente webinar ho sentito un rappresentante sindacale dell’International Workers’ Federation (ITF) lasciar intendere come diversi armatori abbiano sfruttato ad arte la crisi pandemica per dimenticarsi volutamente dei propri marittimi e risparmiare così sul cambio degli equipaggi. Se così fosse, si tratterebbe di un atto criminale vile e meschino».

Anche i governi nazionali hanno la loro parte di responsabilità: «La maggior parte della popolazione marittima impiegata su tutte le navi del mondo proviene dall’India o dalle Filippine, due Paesi che ancora oggi tengono ben serrati propri confini, rendendo estremamente difficile il rimpatrio dei loro cittadini».

Sebbene i Paesi europei si siano mostrati più aperti, non si può certo sostenere che la complessa macchina burocratica abbia funzionato al meglio: «In periodo pre-crisi le ambasciate rilasciavano all’incirca un centinaio di visti al giorno, ora è già tanto se in una giornata arrivano a rilasciarne cinque. Col risultato inevitabile che molti marittimi non si possono imbarcare perché non riusciamo ad ottenere un visto che permetta loro di transitare dall’areoporto alla nave».

La situazione è davvero molto difficile e per certi versi paradossale «Da un lato abbiamo marittimi intrappolati a bordo delle proprie navi, dall’altro colleghi che si trovano intrappolati a terra e forzatamente disoccupati». Un dramma che coinvolge intere famiglie. «Pensi soltanto ai seafarer indiani: nel mondo ce ne sono 200 mila, ognuno dei quali sfama da solo circa dieci famiglie. Secondo le mie stime solo in India vi sono oggi già 120 mila famiglie in difficoltà».

L’abbandono di questi marittimi al proprio destino avrebbe inoltre come conseguenza principale quella di disincentivare l’arrivo di nuove leve: «I rischi percepiti sono troppo alti. Se continuiamo così, rischiamo di non avere più marittimi da imbarcare». Per D’Amico è insomma arrivato il momento di agire: «Ora che le condizioni per poter viaggiare in sicurezza lo permettono, chi ha un contratto scaduto deve poter tornare a casa e qualcun altro a terra deve poterlo subito sostituire. I governi devono riconoscere al marittimo lo stato di key worker permettendogli quindi di viaggiare più agevolmente».

Le navi stanno viaggiando con un carico di sofferenze umane senza precedenti e D’Amico teme che questa tensione possa ben presto esplodere: «Se non corriamo ai ripari, se non facciamo subito qualcosa per i nostri lavoratori ne pagheremo le conseguenze, in termini sia sociali sia umanitari».

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