1,9 miliardi di dollari buttati in mare. Tanti sono, secondo Drewry, i guadagni che nella prima metà del 2020 i terminal operator hanno perso a causa della contrazione dei volumi e dei disagi innescati dalla crisi pandemica.
«Il settore terminalistico se la sta passando sicuramente meno bene dei big carrier – ha dichiarato in un webinar l’analista di Drewry, Eleanor Hadland -, nei primi sei mesi dell’anno il gruppo degli operatori da noi campionato ha infatti registrato un calo dei volumi del 4%, valori, questi, che vanno comparati con le nostre stime generali, che indicano un decremento complessivo a livello globale del port handling pari al -5,6%».
In base al sondaggio l’80% degli operatori intervistati ha riportato minori ricavi. Il fatturato totale dichiarato dai terminalisti è calato in media del 2% rispetto allo stesso periodo del 2019. In termini di profittabilità, il 70% delle compagnie consultate ha riportato tra gennaio e giugno un EBITDA in calo.
Secondo Drewry il fatturato complessivo è diminuito meno che proporzionalmente rispetto alla variazione negativa dei volumi. A consentire agli operatori di rimanere a galla sono stati gli aumenti tariffati applicati a gennaio e l’aumentato ricorso, da parte dei clienti, ai servizi cosiddetti ancillari, come lo storage.
Prima della pandemia, Drewry aveva previsto nella prima metà del 2020 un aumento dei volumi del 4,8% e un corrispondente incremento dei ricavi del 7%. Ora la situazione è cambiata notevolmente: «Nella prima metà del 2020, il settore ha complessivamente registrato una diminuzione dell’EBITDA pari al 16% rispetto a quanto realizzato nel 2019. Sono valori più bassi del 21% con riferimento alle nostre proiezioni pre-pandemia” ha dichiarato l’analista della consultancy firm».
La maggior parte degli operatori ha provato a fronteggiare la crisi prevedendo nuove misure di razionalizzazione dei costi, con risultati alterni, in parte mitigati dalla necessità di mantenere comunque adeguati livelli di operatività in ordine allo svolgimento dei servizi essenziali.
Alcuni costi sono addirittura aumentati: basti pensare a quelli sostenuti per introdurre le nuove pratiche lavorative (smart working) o a quelli generati dai numerosi casi di assenteismo per malattia o per auto-isolamento preventivo.
Tanto per fare un esempio, nei giorni scorsi il terminalista turco Yidlirim ha annunciato di aver introdotto extra-surchage per sostenere i costi di sicurezza derivanti dalla necessità di arginare la diffusione del virus (distanziamento sociale, mascherine, e altre incombenze).
L’estrema volatilità della domanda, specialmente in alcuni mercati, sta insomma facendo sensibilmente lievitare i costi operativi.
La crisi ha insomma creato forti squilibri nella dinamiche di relazione tra domanda ed offerta. A pagar dazio sono soprattutto i grandi mercati di importazione, che appaiono oggi fortemente congestionati. La fine delle misure di lockdown, intorno all’estate, la nuova disponibilità della domanda repressa e l’inizio della tradizionale peak season sono tutti fenomeni che hanno contributo a creare problemi di congestione.
Il sistema appare sovraccaricato. Gli importatori si trovano oggi a pagare costi di trasporto e di storage maggiorati. Ed è difficile dire quando tutto questo finirà. «Il mercato è salito sulle montagne russe – ha dichiarato la Hadland – ed è difficile pensare che possa scenderne prima dell’inizio del prossimo anno».
I dati di Drewry partono da un’analisi di contesto globale in cui il “fattore” Italia si inserisce con una debolezza di PIL nel 2019 e proiezioni sul 2020 molto più contratte: «Rammentiamo che ancora dovevamo recuperare il gap pre crisi del 2008. Ora, l’impatto più dirompente degli effetti pandemici (con una contrazione di fatturati superiore a quella dei volumi) si è avuto tra il secondo e il terzo trimestre» ha commentato il direttore generale di Assiterminal, Alessandro Ferrari che ha sottolineato come invece il quarto trimestre si stia caratterizzando per una carenza di “vuoti” che rende più complessa e onerosa la gestione operativa della cosiddetta catena del valore (o della merce).
«In termini finanziari pesa anche l’aumento dei costi operativi che hanno impattato sulle nostre filiere imprenditoriali più che in altri paesi dell’area UE producendo di fatto impatti negativi di EBDTA incrementali. Più che montagne russe le nostre sono un “bruco mela” che fatica a trovare un abbrivio di fronte alle incertezze non solo dei mercati e delle logiche commerciali delle shipping lines ma anche del contesto politico e delle iperproduzione normativa che non ha ancora individuato misure verticalmente efficaci per il comparto».