Nella banca dati della Corte di giustizia non c’è traccia del ricorso della Repubblica italiana per l’impugnazione della decisione della Commissione europea avente ad oggetto la qualificazione come aiuti di stato della mancata imposizione fiscale sui canoni demaniali.
Come noto tale decisione si fonda su alcuni assunti:
a) le Autorità di sistema portuale concedono la disponibilità delle banchine ai privati;
b) i privati pagano un corrispettivo per tale utilizzo, ossia il canone demaniale;
c) le Autorità di sistema portuale competono tra loro (in vari modi) per attrarre operatori/concessionari;
d) la messa a disposizione di un’area contro un corrispettivo è considerato dalla Corte di giustizia come attività economica;
e) i soggetti che esercitano attività economiche sono soggetti a imposizione fiscale per il relativo reddito;
f) se una categoria di soggetti non è assoggettata ad imposizione consegue un vantaggio economico;
g) il vantaggio economico è vietato se incide sulla concorrenza intracomunitaria.
Come ho detto in altre occasioni, la decisione della Commissione si presta ad alcune critiche soprattutto con riferimento all’analisi concorrenziale. Ad esempio, non tutti i porti competono con altri porti europei.
Infatti, le questioni giuridiche appena elencate sono già state trattate in vari ricorsi e relative sentenze: il Tribunale dell’Unione europea ha sempre respinto i ricorsi degli Stati membri, delle Associazioni di categoria e delle Autorità portuali. È vero che alcune sentenze possono ancora essere impugnate in Corte di giustizia ma la giurisprudenza, ad oggi, pare univoca. Se mai ci sarà un cambio di indirizzo l’analisi potrà essere diversa.
Ci sono peculiarità del sistema italiano tali da pensare che la storia giurisprudenziale non si ripeta per l’Italia? Ci hanno provato tutti (Francia, Olanda, Spagna, Francia, Belgio e Germania) e ci proveremo anche noi…
Lo Stato ha deciso di non ricorrere. Per cui, probabilmente lo farà un’Autorità di sistema portuale. Però, si badi bene, che il ricorso del porto o di più porti insieme, non ha nulla a che vedere con il ricorso che avrebbe potuto fare l’Italia.
L’art. 263 TFUE consente a soggetti diversi dai destinatari dell’atto (lo Stato membro) di impugnare la decisione quando si è “direttamente e individualmente interessati”. Il relativo ricorso della singola Autorità, quindi, può investire esclusivamente aspetti di suo interesse e un intervento adesivo dello Stato, sia chiaro, non è possibile.
Non sono ammessi, infatti, gli interventi di soggetti che avrebbero potuto ricorrere nei termini. E lo Stato aveva tempo fino al 15 febbraio. Perché non l’ha fatto, nonostante le dichiarazioni della ex Ministra Paola De Micheli? Perché la valutazione e la decisione di ricorrere o meno non è solo politica (per fortuna). Oltre al Ministero interessato sono investiti della decisione la Presidenza del Consiglio, soprattutto attraverso il Dipartimento delle Politiche europee, la Rappresentanza Permanente e l’Avvocatura di Stato.
Mi pare troppo semplicistico pensare che il ricorso non sia stato presentato solo per una svista o per il cambio di governo: dal 4 dicembre al 15 febbraio il tempo per ricorrere c’era eccome. Mi persuade di più, allora, una probabile valutazione complessiva delle strutture competenti che, evidentemente, va oltre le mere dichiarazioni politiche spesso dettate dalla necessità di consenso a breve termine.
In ogni caso, non può certo più essere perso tempo: occorre chiarire bene con la Commissione alcuni aspetti pochi chiari della decisione e alcuni dubbi di legittimità per limitarne i relativi effetti alle sole attività davvero di rilevanza economica e che siano davvero in competizione con porti situati in altri Stati membri.
Basterebbe, intanto, alzare il telefono senza tante cerimonie.