Il pensiero del nostro agire pubblico non è, ancora, un pensiero di sistema. E’ l’amara ma ragionata considerazione cui perviene la dirigente gare e contratti dell’AdSP del Mar Tirreno Settentrionale, Roberta Macii, in una lettera aperta che ha inviato al Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile, Enrico Giovannini, e che si snoda in un ragionamento critico che tocca temi di stretta attualità. Pubblichiamo di seguito il testo nella sua interezza.
Il Presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo discorso al Meeting di Rimini del 2020, a proposito del processo di indebitamento che l’irruzione della crisi pandemica planetaria ha introdotto (o accelerato?), tra gli altri, anche nel nostro Paese, ha affermato che questo debito “sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi (…). Se cioè sarà considerato ‘debito buono’ (…). I bassi tassi di interesse non sono di per sé garanzia di sostenibilità: la percezione della qualità del debito contratto è altrettanto importante”.
Ma quali sono gli impieghi che possono rendere il debito pubblico buono? Naturalmente e spontaneamente siamo portati a ritenere che il debito che finanzia investimenti è buono mentre quello contratto per spese correnti è cattivo. C’è del vero, naturalmente. Sarebbe, però, una risposta insufficiente.
Mi permetto di citate le parole del Presidente del Consiglio cogliendone lo spunto per introdurre una visuale di addetta ai lavori che rappresenta una manifestazione concreta del medesimo concetto: dopo più di venti anni di storia e di “vita portuale” sento il bisogno di esprimere alcune considerazioni maturate nel corso della mia esperienza e che, senza pretesa alcuna di completezza, possono far riflettere sul perché la risposta è (e continuerà ad essere?) insufficiente.
Vorrei parlare in particolare delle modalità di realizzazione del nostro “sistema portuale” che – almeno allo stato – sistema non è e che soffre, tra gli altri, di un peccato originale: nella difficoltà di creare, o meglio di costruire, delle vere e proprie reti logistiche e industriali – come le direttrici economiche suggerivano – abbiamo realizzato infrastrutture portuali e lo abbiamo fatto, spesso, nella consapevole mancanza degli effettivi ritorni economici confidando piuttosto nell’attrattività che “l’allargamento a mare” dei confini della nostra penisola avrebbe esercitato portandosi dietro tutto il resto comprensivo, quest’ultimo, dell’interesse agli investimenti, ai traffici, al lavoro e quindi allo sviluppo del sistema economico, questo sì, nazionale.
Certo qualche volta è stato così ma, com’era prevedibile, non abbastanza volte da reggere un’analisi severa in termini di costi/benefici (potremmo chiamarla di sostenibilità?) ed in grado di innescare il processo di amplificazione della spesa pubblica in conto capitale che dovrebbe provocare, mediante ondate successive (di cui parlano gli economisti), l’effetto moltiplicatore atteso: il meccanismo si è arrestato al termine della realizzazione delle opere e sul bilancio dello Stato si è registrato nel lungo termine, una partita in negativo.
Per anni ci siamo detti che l’Italia è una piattaforma logistica naturale facendo derivare l’affermazione dalla convinzione dell’osservatore che esamina la struttura geomorfologica di un territorio che si estende sul mare e ritenendo il dato relativo alla conformazione il razionale della corsa all’infrastrutturazione dei porti degli ultimi 25 anni.
Peccato, ed il richiamo ai colori delle diverse zone mai come ora è tristemente attuale, che non possa sfuggire, neanche all’osservatore più disattento, che i colori della nostra penisola mostrano chiaramente i rilievi montuosi che caratterizzano la dorsale e tutta la zona di confine con il resto dell’Europa e che ciò sia la ragione, questa sì naturale, per la quale, a fronte di un’infrastrutturazione imponente degli ambiti portuali, non sia ancora stato possibile traguardare il livello di sviluppo e di ritorno economico auspicati.
La questione in effetti è un pochino più complessa e, sia pure sinteticamente e riduttivamente, riconducibile ad un’unica e fondamentale ragione ovvero il nostro pensiero, il pensiero del nostro agire pubblico non è, ancora, un pensiero di sistema.
Tutt’altro che un gioco di parole seppur nell’apparente formulazione in tal senso, si tratta del risultato di un’osservazione continua e costante dell’ultimo ventennio fino ad alcuni recentissimi spunti che vorrei provare a rappresentare tenendo l’affermazione sopra riportata come un punto di partenza al quale, sulla base di un percorso circolare, mi riservo di tornare in conclusione del ragionamento:
Tutta colpa del Codice dei Contratti Pubblici…o forse no
Discendendo da una premessa di carattere così generale il riferimento, da ultimo, al Codice dei contratti pubblici potrebbe apparire, in un certo senso, un salto logico: ma non lo è e vediamo perché.
Senza voler né potere addentrarmi nella declinazione degli scenari futuri che gli studiosi cercano di rimodulare sugli effetti di medio e lungo periodo della crisi pandemica che ha colpito il pianeta, e per ciò che ai fini del presente scritto rileva, riprendo solo la segnalazione che a gran voce da più parti si manifesta nello stigmatizzare la visione di coloro che hanno interpretato la logistica come fine anziché come mezzo (di cui è figlia la corsa alla realizzazione delle opere portuali) e che si sono affannati nella ricerca di semplificazioni e snellimenti delle procedure la maggior parte delle volte aggredendo la farraginosità del nostro ordinamento giuridico costantemente ricondotta al Codice dei contratti pubblici.
Un nuovo, ennesimo, dibattito, si è appena riaperto in tal senso. Abbiamo visto il nostro Legislatore impegnato a rispondere continuamente alle sollecitazioni da sempre invocate di riforme delle riforme, snellimenti, semplificazioni e azzeramenti, più o meno lucidamente caldeggiati, della burocrazia.
Bene: per quanto il nostro non possa che qualificarsi come un sistema giuridico indubbiamente complesso, ritengo sia impossibile per chiunque negare che gli strumenti di semplificazione introdotti nel tempo abbiano veramente superato il numero delle richieste avanzate per averne, fino ad arrivare ad un decreto, appunto denominato “Semplificazioni” nel quale il Legislatore, con una formulazione impattante almeno quanto la crisi che stiamo vivendo, ha introdotto una sorta di “liberi tutti” o meglio, liberi tutti coloro che responsabilmente, motivatamente e in maniera qualificata, siano disponibili ad utilizzare gli strumenti oggi, e non solo, messi in campo.
Nell’esprimere un effettivo apprezzamento per i contenuti del decreto citato (peraltro esso stesso già in via di ulteriore aggiornamento) per il quale si parla addirittura di superamento di ciò che viene sinteticamente denominato il “modello Genova” (a dire il vero più enfatizzato che effettivamente conosciuto), non posso tuttavia fare a meno di ricordare di seguito una breve sequenza di strumenti legislativi (a mero titolo esemplificativo e con diversi livelli di specificità) il cui valore è rimasto per lo più puramente nominale e che, negli anni e a più riprese, il Legislatore aveva introdotto all’interno di visioni necessariamente e correttamente più ampie di quelle direttamente legate alla realizzazione delle opere pubbliche intese nel senso di affidamento dei lavori.
Sempre tenendo presente il punto di partenza del ragionamento secondo il quale il nostro non è un pensiero di sistema, riporto quindi alcuni esempi che rappresentano una circostanza a mio avviso fortemente attenuante rispetto alle responsabilità addossate alla disciplina degli appalti di opere pubbliche.
La geometria amministrativa della Conferenza di Servizi
Il primo riferimento va allo strumento della Conferenza di Servizi: inserita in un capolavoro del diritto amministrativo che è la legge 241/90 modificata e integrata nel tempo, sono pochi gli esempi in cui il ricorso allo strumento principe di semplificazione che riunisce ad un unico “tavolo” tutti gli attori chiamati alla trattazione congiunta (potremmo dire di sistema?!) di vicende complesse, abbia efficacemente funzionato e/o lo abbia fatto sulla base di un cronoprogramma aprioristicamente stabilito ed effettivamente rispettato.
La Conferenza di servizi, della quale il Legislatore ha via via aggiornato tempi e modi di funzionamento, non consente ancora oggi al soggetto richiedente o al promotore o all’amministrazione competente di poter confidare su una calendarizzazione certa del procedimento né sul fatto che questa possa essere “tarata” fin dalla fase di convocazione sul peso specifico e sull’economia complessiva del progetto amministrativo che è rivolta a licenziare. Il cronoprogramma, se c’è, assume il valore di mero riferimento adattato, in misura più o meno corrispondente, a quanto indicato nelle disposizioni che ne contengono la disciplina.
Eppure proprio strumenti come la Conferenza di Servizi o gli accordi tra Pubbliche Amministrazioni o ancora tutte le altre forme di collaborazione istituzionale riconosciute dal diritto positivo che si collocano in un rapporto di species a genus con la Conferenza medesima non sono altro che forme codificate della logica di sistema che avrebbero dovuto educarci ad una visione più ampia rispetto a ciò che viene interpretato come mero assolvimento dell’obbligo di esprimere un parere limitato all’angolo visuale offerto dal foglio A4 presente sulla scrivania.
Con il tempo ci siamo abituati a svolgere una funzione che si esplica mediante una sovrapposizione geometrica dell’oggetto trattato al perimetro della normativa di riferimento e ad esprimerci, in un senso o nell’altro, a seconda di dove si collocano i confini dell’istanza se del caso reiterando, a più riprese, gli approfondimenti istruttori propedeutici ad assumere determinazioni fino a che non le avremo rese perfettamente “georeferenziate” rispetto al testo della disposizione.
D’altro canto ciò non significa stigmatizzare in assoluto la “geometria amministrativa” ma rappresentare che con essa gli addetti ai lavori si collocano molto spesso in una dimensione parallela rispetto a quella, centralissima invece ma non percepita, del “sistema” nel quale sono inseriti, e che produce, per effetto di procedimenti complicati e interminabili, diseconomie di sito e, appunto, di sistema.
La stessa dimensione parallela, oltre e prima ancora che sotto il profilo amministrativo, è esistita (esiste ancora?) nell’approccio progettuale delle istanze: molte delle opere portuali realizzate soffrono di una sindrome da isolamento infrastrutturale legato alle connessioni viarie e ferroviarie dimensionato e dimensionabile su un gap spesso di gran lunga superiore al cosiddetto ultimo miglio.
Il primo vero Piano nazionale della portualità e della logistica redatto sotto il governo del Ministro Delrio ha censito e mappato, attivando una imponente project review, molte delle programmazioni avviate introducendo nella misura allora possibile alcuni dei correttivi necessari ancorchè, con lo sguardo rivolto al passato, inevitabilmente insufficienti per il recupero delle partite in negativo da tempo registrate sul bilancio dello Stato.
Stenta, d’altro canto, ancora a delinearsi la dimensione sovranazionale del Piano, quella che supera definitivamente la concorrenza tra i porti interni e decide di incidere sulle infrastrutture transfrontaliere privilegiando e correndo su quelle interne urgentemente necessarie: un altro sistema…
Gli accordi di programma…di programma
I giorni che precedono e quelli immediatamente successivi alla sottoscrizione degli Accordi di Programma o di altre forme accordi tra Amministrazioni, sono vissuti con lo stesso fervore di certi preparativi alle nozze… Al momento della firma i ruoli apicali, politici ed amministrativi con gli addetti stampa al seguito, formalizzano la nascita di un nuovo (grande o piccolo) sistema amministrativo con declinazione di modi e tempi per il raggiungimento di obiettivi ambiziosi mentre i territori sperano che quel riflettore acceso consentirà di illuminare finalmente la rotta per poter “arrivare in porto”.
Man mano che si susseguono gli incontri al Tavolo dei Sottoscrittori le presenze si riducono come si riduce il peso specifico dei partecipanti, la qualificazione e la rappresentatività rispetto al potere decisionale.
Molto spesso i risultati degli strumenti di programmazione negoziata (presenti nell’ordinamento nella logica di sistema!) sono quelli ai quali si sarebbe arrivati indipendentemente dalla sottoscrizione degli stessi (guarda caso quasi sempre opere pubbliche) mentre ciò che costituisce “il programma” necessariamente legato alla collaborazione interistituzionale, all’utilizzo di corsie preferenziali e riduzione dei termini e alla calendarizzazione stringente della conclusione dei procedimenti (sulla base di norme che erano già presenti nell’ordinamento), stenta a trovare concretezza affogato nella quotidianità delle scrivanie a partire dal giorno successivo a quello dell’evento mediatico.
Il sistema dell’acqua
Nel perseguire i più elevati livelli di tutela ambientale, rispetto alla quale è evidente la recessività di tutti gli interessi eventualmente e potenzialmente confliggenti, si è comunque assistito ad un tentativo di evoluzione nella normativa di riferimento che avrebbe dovuto poggiare, neanche a farlo apposta, su un più ampio lavoro di sistema. Che non c’è stato.
Le realtà portuali sono molto variegate e comprensive dei piccoli porti turistici come dei grandi porti commerciali e, tra questi, i porti che insistono nelle aree qualificate come Sito di bonifica di interesse nazionale.
Per questi ultimi, a suo tempo, furono tracciati perimetri cautelativi molto grandi che di fatto non hanno consentito alcun intervento di risanamento: con il Decreto Direttoriale 8 Giugno 2016, fu prevista, finalmente, in ossequio ai principi ambientali anche sotto il profilo della sostenibilità ed efficacia degli stessi, la possibilità di riperimetrazione allo scopo di isolare, nella parte marina dei SIN, le aree ad effettivo rischio ambientale sulle quali intervenire con azioni mirate di risanamento restituendo le altre alla disciplina ordinaria di cui al Decreto ministeriale 173.
La procedura, ad oggi, è rimasta inattuata. Lo stesso Decreto ministeriale 173, dopo 5 anni di applicazione, potrebbe essere oggetto di miglioramento.
L’Osservatorio istituito presso il Mite ha in corso alcune proposte di aggiornamento, inclusa una gestione più speditiva per i dragaggi interni ai porti ed il mantenimento dei sedimenti sui medesimi fondali portuali: una tra tutte potrebbe essere, con il supporto costante della comunità scientifica, l’individuazione dei siti di immersione a mare oltre le 3 MN regionali o sovraregionali, che in una logica di sistema nazionale, rappresenterebbe un aiuto effettivo.
Nel nostro ordinamento è invece ancora del tutto carente una norma, al di fuori dall’ambito dei rifiuti, che disciplini il riutilizzo “a terra”, o “a mare” (dopo opportune attività di trattamento per ridurre il possibile inquinamento) dei materiali dragati nei porti e nelle aree costiere di interesse. Il riutilizzo nella filiera terrestre, come già avviene in alcuni Paesi europei, consiste principalmente nel reimpiego del sedimento dragato come materiale per sottofondi stradali ed infrastrutturali (es. strade, piazzali interportuali, aeroportuali), materiali da costruzione (civile e industriale), riqualificazione ambientale, riempimenti di aree depresse o a rischio innalzamento delle acque, opere di regimazione idraulica, ecc.).
Ad oggi, l’unica possibile alternativa per i materiali “tolti dall’acqua”, è ancora l’applicazione della normativa sui rifiuti, che mal si adatta ad una matrice comunque naturale, ancorché possibilmente inquinata, che interessa spesso volumi significativi (non meno di qualche migliaio di metri cubi). Le difficoltà sono tali per cui questi materiali spesso, nelle situazioni di qualità peggiore, sono destinati ad essere refluiti in vasche di contenimento conterminate, da cui difficilmente potranno essere recuperati e riutilizzati in modo virtuoso in un’ottica di economia circolare. Tali bacini potrebbero invece rappresentare la fase intermedia del percorso “circolare”, una sorta di “laboratori all’aperto” a cui associare attività di trattamento che ne migliorino la qualità per un successivo riutilizzo “a terra” o di nuovo “a mare”.
Molto tempo fa avevo scritto, in argomento, tracciando il percorso dei sedimenti marini nei termini di “circuito dell’acqua” prendendo spunto dalla direttiva comunitaria in materia di rifiuti che, circoscrive l’ambito di applicazione delle disposizioni in essa contenute (con una semplicità disarmante per la nostra geometria amministrativa ed impregiudicate le norme di tutela ambientale), individuando tra le esclusioni “i sedimenti spostati”.
In chiave moderna, lo spostamento ed il riutilizzo dei sedimenti marini potrebbe chiamarsi “sistema dell’acqua” ma credo che il nostro Legislatore sia ancora distante da questo ambitissimo traguardo di efficienza del sistema della portualità così come lo sono i costi delle attività di dragaggio e gestione dei materiali dai principi di economicità di cui, appunto, alla circolarità della logica di sistema.
Conclusioni
Sono ancora molti gli esempi che potrebbero essere rappresentati rispetto a quello che è il ragionamento alla base del presente scritto: il pensiero del nostro agire pubblico non è, ancora, un pensiero di sistema. Ed infatti è di questi giorni l’emanazione del decreto legge 77/2021 presentato come il “crash program” amministrativo messo in campo assicurare il rispetto dei termini imposti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sia dal punto di vista temporale che di efficacia delle azioni intraprese: Commissione VIA speciale, Comitato del Consiglio Superiore dei lavori pubblici speciale, Soprintendenza speciale e qualche immancabile ritocco al Codice dei Contratti Pubblici oltre ad una task force che dovrebbe funzionare da stanza di compensazione delle istanze ed interessi confliggenti dai quali, neanche la “specialità” del percorso, sarà in grado di metterci al riparo.
Ora, in disparte la necessità di segnalare che le disposizioni di cui al decreto citato, il cui ambito di applicazione è rigorosamente e ripetutamente circoscritto agli interventi del PNRR e del PNIC, non sono al momento suscettibili di disciplinare l’attività dei 40 Commissari Straordinari recentemente nominati anche per interventi non compresi nei Piani citati (probabilmente per una diversa graduazione del concetto di specialità o perché si tratta di un sistema diverso?), vorrei concludere con una riflessione.
La straordinarietà della situazione attuale, nella drammaticità di ciò che la stessa ancora rappresenta ed ha rappresentato, ha prodotto, sia pure nostro malgrado, un’occasione irripetibile “di ripresa e resilienza” rendendo disponibili risorse imponenti accompagnate da una potenziale riforma dei passaggi cruciali del nostro modello di sviluppo : la possibilità che il “sistema” funzioni ovvero che superi il valore puramente nominale di strumenti che, come abbiamo visto, lo hanno preceduto, è direttamente proporzionale alla capacità che il pubblico avrà di ricostruire e valorizzare una rete di qualificazione, esperienza e innovazione nelle e delle Amministrazioni introducendo meccanismi di incentivazione motivazionale e di selezione, anche interna, seri e severi.
Illustrissimo Sig. Ministro, nessuna riforma, ancorchè illuminata, reggerebbe ad una resistenza di pensiero come quella, riduttivamente e semplicisticamente descritta ma reale e per quanto “speciali” siano commissioni e commissari straordinari, sono essi stessi la prova che i fatti forniscono del fallimento di un sistema.
La specialità e la sfida vera – la più difficile – sarà quella che gli strumenti autorevolmente messi in campo siano accompagnati dalla capacità e dalla determinazione del Capitale Umano qualificato e qualificante accorciando le distanze, spesso siderali, tra chi decide come si fa e chi lo fa, attingendo, e replicando, dalle esperienze migliori e convincendo, come in un’immagine di cerchi concentrici, ognuno di noi, ad alzare la visuale verso obiettivi in grado di scuotere le nostre coscienze insegnandoci a sostenere il Sistema.