Interventi

Shipping extra large

I giganti si mangiano la ripresa

di Marco Casale

Scarsa fiducia nel mercato britannico e domanda retail stagnante in Germania. Per la società di analisi Drewry sono questi i fattori che stanno rallentando la crescita dei traffici marittimi tra i porti europei e quelli asiatici, mangiandosi i buoni rendimenti del 2017.

Nel suo Global Container Terminal Operators Annual Review and Forecast 2018, la consultancy firm britannica avverte: «Nel primo semestre del 2018 i volumi di merce che sono passati lungo la rotta euro-asiatica sono stati gli stessi di gennaio-giugno 2017, 4,9 milioni di TEU». Ad aprile-giugno i volumi westbound sono inoltre calati dell’1,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.

La causa è da rintracciarsi nei rendimenti domestici in Gran Bretagna e Germania (che coprono due quinti dei westbound flows) ma anche nel tonnellaggio extra riversato su questa rotta a causa dell’entrata in circolazione di un numero sempre maggiore di navi.

Il portafoglio ordini delle compagnie si fa sempre più pesante, anche in periodi contrassegnati da una crescita debole della domanda, tanto che rispetto all’anno scorso la disponibilità di slot lungo il trade est-ovest è aumentata del 10%. Una combinazione tossica – secondo Drewry – che ha come prima conseguenza quella di abbassare i ricavi base dei big carrier.

Il livello medio delle rate di nolo per il trasporto merci è calato al di sotto della soglia psicologica dei 1.000 dollari per container di 40 piedi.

Il problema è sempre lo stesso: la domanda non cresce a livelli tali da compensare la capacità aggiuntiva di stiva che i carrier immettono nel mercato. Alla fine del 2017 erano in ordine nuove costruzioni per altri 2,7 milioni di TEU, pari a circa il 12% del totale attuale (21,9 milioni di TEU).

Le compagnie di navigazione stanno continuando a realizzare nuove economie di scala ma nella sola maniera alla quale ormai sono abituate: acquistando navi lunghe quanto 4 campi di calcio e larghe 60 metri.

L’ultimo vettore ad aver annunciato un aumento della propria flotta è stata Orient Overseas Container Line, controllata al 100% da Cosco, che ha  ordinato nuove navi per una capacità aggiuntiva di 300mila TEU.

Il liner arriverebbe così ad avere una fleet size di 1 milione di TEU, concentrandosi in particolare sull’acquisizione di nuove unità da 20mila TEU. L’Ocean Alliance – di cui Cosco Shipping Line e OOCL sono entrambi membri assieme a CMA CGM ed Evergreen Line – guida ora la testa della classifica del market share nei servizi transpacifici.

Ancora oggi le compagnie di navigazione più importanti – quelle per intenderci che hanno saputo concentrare quote rilevanti di traffico in tre alleanze (2M, The Alliance, Ocean Alliance) – ricorrono al gigantismo navale per ridurre i costi unitari di carburante, personale marittimo e assicurazioni.

Come ha osservato Michele Acciaro, esperto di logistica portuale e docente alla Kühne Logistics University di Amburgo, «ci troviamo davanti a una sorta di dilemma del prigioniero dove il perseguire l’interesse individuale comporta uno svantaggio collettivo e le scelte dettate dalle logiche del profitto di alcuni si rivelano funeste per tutti».

A rischiare di avere la peggio sono sempre i soliti porti, dotati di infrastrutture che diventano obsolete il giorno dopo essere state realizzate. Il tentativo di concentrare la merce su un numero sempre più inferiore di scali marittimi sta infatti mettendo in ginocchio l’economia di interi Paesi e il cascading effect del gigantismo navale si sta riversando anche su quelle rotte che prima erano servite da navi più piccole.

Un analista della società di consulenza Drewry, James Kyritsis, ha fatto osservare come le compagnie continuino a schierare sulla rotta del Northern Range containership sempre più grandi (in particolare quelle da 21mila TEU) mentre molte navi tra i 10 e i 16mila TEU siano già state spostate sulla rotta dall’Asia al Mediterraneo, anche se i volumi del mercato non lo richiedono.

Ad avere l’acqua alla gola sono i terminalisti, anche se nel suo report Drewry ha spiegato di attendersi da qui al 2022 un aumento della domanda per i servizi terminalistici, soprattutto a causa della scarsità di investimenti in progetti greenfield (cioè totalmente nuovi e non relativi a riconversioni) osservata negli ultimi anni.

Le shipping company attive nel business dei container sono alla disperata ricerca di sempre nuove economie di scala, e lo fanno chiedendo servizi di handling della merce sempre più efficienti ed economici.

Il consolidamento di mercato e il gigantismo mettono i terminalisti di fronte a scelte coraggiose per sopravvivere: imbarcando laddove possibile le stesse compagnie armatoriali all’interno delle società, e investendo più soldi nell’ammodernamento di infrastrutture ed equipment.

Si tratta di investimenti che appaiono tanto più onerosi quanto maggiori sono le dimensioni di una nave e la capacità di concentrazione di un’alleanza. Avete presente che cos’è una unità navale da 24mila TEU? Stiamo parlando di colossi di 480 metri di lunghezza, 60 di larghezza, con un’altezza operativa che supera i 50 metri e che necessitano a terra di gru pesanti 2mila tonnellate (un peso insostenibile per qualsiasi banchina italiana) e con uno sbraccio di oltre 55 metri.

Come ha già ricordato più di un esperto, il vantaggio economico associato alla crescita di una nave si riduce peraltro man mano che aumentano le dimensioni della stessa: la riduzione dei costi nel passaggio da una unità panamax a una post panamax è pari al 20% mentre quella nel passaggio da una nave da 13mila a una da 18mila TEU si riduce a pochi punti percentuali.

Sta di fatto che l’entrata in servizio di queste navi giganti ha già compromesso l’operatività dei porti cinesi e soprattutto sta ponendo problemi inediti a quelli operanti sul Mediterraneo. Al momento soltanto il 37% dei terminal europei è infatti in grado di “manovrare” una nave da 16mila TEU.

Ne consegue che quella fra la portualità continentale e le compagnie di navigazione non può certamente dirsi un’alleanza win-win.

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