Nei primi sette mesi dell’anno le petroliere VLCC hanno realizzato introiti pari a poco più di 5.000 dollari al giorno in media. Sono valori in perdita perché tale cifra non copre i costi operativi di una nave. In territorio negativo anche i guadagni delle Suezmax e Aframax.
Le product carrier da 35/50.000 tonnellate di stazza, che di solito sono meno sensibili agli alti e bassi del barile, hanno guadagnato invece poco sopra i 7.000 dollari al giorno.
La domanda di trasporto è stata insufficiente ad assicurare un impiego remunerativo a tutta la flotta. D’altra parte, i consumi mondiali di petrolio sono ancora al di sotto dei livelli raggiunti nel dicembre 2019, pari a 101,8 milioni di barili giorno. Secondo l’Aramco, compagnia saudita leader del mercato, la domanda mondiale di greggio dovrebbe raggiungere quota 99 milioni di barili al giorno entro la fine del 2021, per poi arrivare – l’anno prossimo – a 100 milioni. Quindi non si prevede si possa ritornare ai consumi pre-Covid prima del 2023.
Per contro, sul fronte dell’andamento del prezzo del barile, dall’inizio del 2021 il prezzo ha guadagnato il 35%. Venerdì scorso i contratti sul greggio Wti e Brent viaggiavano attorno a valori superiori ai 70 dollari al barile salvo poi scendere in questi giorni attorno ai 65-67 dollari.
Naturalmente, l’aumento del prezzo del barile ha dato ossigeno alle casse delle compagnie che producono greggio: dalla Saudi Aramco, che ha registrato un secondo trimestre 2021 eccellente, alla ExxonMobil, che ha annunciato di aver registrato un utile netto di 4,69 miliardi di dollari nel trimestre rispetto alla perdita di 1,08 miliardi dell’anno precedente. La Shell ha riportato invece utili per 5,53 miliardi di dollari (il valore più alto in due anni), contro i 638 milioni del secondo trimestre del 2020. L’italiana Eni ha registrato un utile netto di 0,93 miliardi di euro, ovvero 1,6 miliardi in più rispetto al risultato del secondo trimestre del 2020.
Se il barile aumenta ormai sappiamo che è per speculazioni di tipo strettamente finanziario e non per l’aumento della domanda fisica di petrolio, la quale invece, come abbiamo visto, è ancora inferiore ai dati del 2019. L’immediata conseguenza è quella di una depressione dei noli. In aggiunta, se il prezzo sale, molti utilizzatori che non hanno urgenza rimandano gli acquisti, contribuendo a una riduzione dei consumi e quindi delle tariffe di trasporto. E’ un circolo vizioso.
I motivi dell’aumento del barile vanno quindi cercati nel sentiment creato fra gli speculatori sulla base delle previsioni di ripresa economica post-Covid. Aramco ha spiegato che il buon risultato di bilancio nel trimestre aprile-giugno 2021 è dovuto alla ripresa dell’attività economica, all’allentamento delle restrizioni alla mobilità, che erano state introdotte per limitare i contagi da coronavirus, alle campagne vaccinali e ai piani di ripresa. C’entra naturalmente anche il modesto aumento della domanda di petrolio in questi ultimi mesi, ma non è tale da far ritornare i consumi ai livelli pre-Covid.
La seconda metà dell’anno si presenta con due incognite, che stanno infatti già da ora zavorrando la risalita del barile. Grazie all’accordo raggiunto – tra molte difficoltà – dai paesi esportatori che fanno parte del gruppo OPEC+, dal 1° agosto è aumentata l’offerta di greggio sul mercato. L’amministratore delegato Aramco, per esempio, ha ricordato di essere al lavoro per raggiungere una capacità produttiva di 13 milioni di barili al giorno, rispetto ai 12 milioni attuali.
Inoltre, si sta affermando fra gli operatori finanziari la consapevolezza che la pandemia sia tutt’altro che finita, vista la diffusione della variante delta del coronavirus e l’aumento dei contagi, dagli USA in giù.
La conseguenza più logica di questi due fattori (aumento della disponibilità fisica del greggio e timori per un ritorno a restrizioni nei trasporti) dovrebbe portare giù il prezzo del barile e quindi incoraggiare (ma in modo contenuto) consumi e trasporti.