© Michela Canalis
Interviste

Colloquio con Federico Barbera

Si fa presto a parlare di riformismo

di Marco Casale

Essere riformisti? Per Federico Barbera significa costruire, mattone dopo mattone, un’idea di portualità che pur rispondendo alle sfide del contingente sappia mantenersi coerente con lo spirito e i principi fondativi che la caratterizzano sin dalla nascita.

Mentre fuori si moltiplicano le voci di un imminente riordino delle norme che regolano l’autoproduzione e il divieto di doppia concessione in un porto per l’esercizio della stessa attività merceologica, il n.1 di Uniport e presidente appena riconfermato di Assimprese, invita il Governo a spostare il baricentro verso il pragmatismo delle riforme, dell’attenzione alle imprese portuali e alla tutela del lavoro.

«Il lavoro portuale – dice – è uno dei pilastri della legge 84/94 e che che se ne dica va salvaguardato. Per me riformare vuol dire prima di tutto uniformare. Non è possibile che ogni porto abbia un proprio modello organizzativo. Passi pure che occorra essere flessibili, ma così rischiamo l’anarchia».

Quello che interessa a Barbera è che i processi di cambiamento vengano elaborati all’interno di un binario di regole condivise. «Oggi abbiamo determinati porti, peraltro lautamente premiati dagli investimenti del Governo, che non hanno articoli 16 ma un grande art.17. Altri scali portuali, come Livorno, funzionano con tanti art. 16 che lavorano in subappalto e con un’Agenzia per il Lavoro in Porto debole. Ecco, dovremmo invece costruire un’idea di lavoro, coerente ed equa, perseguibile su tutto il territorio nazionale. E’ su questo che dobbiamo confrontarci con il Governo».

Il n.1 di Fise Uniport non vuole nuove conferenze o comitati di saggi: «Basterebbe coinvolgere attorno a un tavolo i firmatari del Contratto Collettivo Nazionale dei lavoratori portuali. Lì dentro ci sono le organizzazioni sindacali e i rappresentati della portualità italiana. Soltanto dopo aver sviluppato un progetto comune, potremmo presentarci al Ministero competente come cluster portuale».

Non pare invece ci siano margini di manovra su un altro tema caldo, quello dell’art. 18, comma 7. Stando a quanto si legge nell’ultima bozza del Decreto Concorrenza – il cui testo verrà esaminato forse già oggi dal Consiglio dei Ministri – il divieto di cumulo di concessioni non si applicherà più nei porti di rilevanza economica internazionale e nazionale.

Il n.1 di Fise Uniport, che tanto ha fatto in passato per evitare che venisse portata a compimento la fusione fra i terminal container Psa e Sech di Genova, inviando anche una serie di osservazioni all’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato, non vuole passare da conservatore ma ci tiene a rimarcare la propria contrarietà: «Con il merger tra queste due realtà – sottolinea – non abbiamo soltanto travalicato i confini normativi della legge ma abbiamo consentito ad una società straniera di acquisire sostanzialmente i due principali terminal dello scalo più importante di Italia. Abbiamo creato una stortura che ci espone agli appetiti di mercato altrui e che registra una sostanziale asimmetria operativa tra un tipo di operatore, come la PSA di Singapore, sostanzialmente pubblico ma dinamico e business oriented, e un altro, come le nostre Autorità di Sistema, che non può operare in casa propria o all’estero con gli stessi strumenti».

Anche l’eventuale demolizione dei vincoli normativi all’esercizio dell’Autoproduzione è per Barbera la risposta sbagliata a una domanda di cambiamento: «Io non sono per i no a prescindere, ma prima di farci prendere dall’ansia riformista dovremmo capire esattamente in quali casi sia veramente ammissibile. Nulla quaestio se a volerla usare sia la compagnia marittima che abbia acquisito il proprio terminal e che decida quindi di definire un modello organizzativo funzionale alle proprie esigenze».

Ma se a voler lavorare in regime di autoproduzione è il vettore puro, il discorso cambia, specie nelle aree assentite in concessione. «Un vettore che intenda usare il personale di bordo per le operazioni di rizzaggio e derizzaggio costringerebbe il terminalista a mantenere inutilizzate le proprie maestranze. Si creerebbero disagi sociali e problemi di efficienza. A rimetterci sarebbero migliaia di lavoratori».

Ecco, per Barbera il riformismo vero è una lenta, graduale e progressiva opera di correzione delle storture che hanno intaccato lo spirito originario della legge 84/94. Lo strumento del subappalto è una di queste: «Permettere ad un art. 16 di appaltare segmenti del ciclo operativo ad un altro o più soggetti ha prodotto una torsione nell’impianto della legge, creando una eccessiva parcellizzazione del lavoro. Abbiamo finito con il favorire la creazione di tante, piccole e inefficienti imprese portuali, completamente inadatte a svolgere le operazioni e i servizi se non per il tramite di altri articoli 16».

Ma questo è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare. Quel che conta è cominciare a ragionarne seriamente. «L’idea di una portualità semper reformanda non mi convince. Invece di continuare a parlare dell’esigenza di un ennesimo riordino, che rischia di creare solo disordine, cerchiamo di applicare bene le norme che già ci sono, perché di overdose di riformismo si può anche morire».

Torna su