«Il sistema di alleanze costruito attorno al mercato dei container? Semplicemente non funziona: restringe la competizione, gonfia le tariffe e abbassa gli standard qualitativi dei servizi». Il grido di allarme lanciato nei giorni scorsi dal nuovo presidente del Global Shippers’ Forum Sean van Dort è qualcosa di più di un j’accuse rivolto alla “plutocrazia del mare”: è semmai una riflessione sugli attuali rischi che stanno correndo gli stakeholder dello shipping in un settore sempre più oligopolistico.
Oggi le tre alleanze controllano l’87% dell’offerta di stiva e recentemente la spinta alla concentrazione ha raggiunto un nuovo traguardo, coinvolgendo due grandi consorzi – The Alliance e Ocean Alliance – in un’inedita collaborazione che porterà a fondere in un unico loop gli attuali servizi che questi operano sulla direttrice che collega il Mediterraneo agli Stati Uniti.
Il comparto sta insomma attraversando una fase molto delicata. La frenetica attività di fusioni e acquisizioni fra le linee di navigazione ha costituito negli ultimi tempi un fondamentale cambiamento nel trasporto marittimo containerizzato.
In appena trent’anni il numero dei vettori globali si è infatti dimezzato, passando dai 30 liner presenti all’inizio degli anni Novanta agli attuali 14. E quelli che sono sopravvissuti alle montagne russe del mercato hanno unito le forze per recuperare margini di redditività.
In che modo? Interrompendo i servizi laddove necessario per creare così una crisi temporanea di capacità e aumentare le tariffe di nolo. Più di una volta i maggiori operatori mondiali del trasporto container sono finiti sotto la lente delle autorità antitrust perché sospettati di avere messo in atto un cartello per gonfiare le rate di nolo sulle rotte oggi disponibili.
Ed è da qui che parte la denuncia di van Dort, dal comportamento “da cartello” tenuti dalle big companies. Un noto detto tedesco recita che il rischio è l’onda su cui naviga il successo (Risiko ist die Bugwelle des Erfolges). Raramente prima d’ora però le imprese di shipping sono state chiamate a fronteggiare con tanta incertezza un simile rischio di mercato.
A correre i rischi principali – spesso non per avere successo ma semplicemente per sopravvivere – sono i caricatori, che hanno sempre più difficoltà a sostenere la nuova tendenza rialzista delle freight rates.
Oggi il nolo di un container da 40 piedi lungo la rotta Cina-US West Coast costa 2.354 dollari, e si tratta della più alta rata mai registrata dal Baltic Freght Index. Lo shipping lungo il canale di Panama non è meno caro: ci vogliono 3.514 dollari per muovere un container dalla Cina alle coste orientali del continente americano (è un valore molto vicino al record di 3.543 dollari raggiunto a gennaio 2017). I noli dall’Asia per il Mediterraneo e viceversa si collocano su valori decisamente inferiori ma sono comunque in crescita (+0,5% nei primi sette mesi dell’anno).
Lo spostamento del potere dagli shipper alle linee di navigazione mette di fatto i vettori in condizione di rimediare all’eccesso di capacità di slot. Anche se è previsto che la domanda per il 2018 non cresca allo stesso ritmo con cui aumenta l’offerta di stiva (3,5% contro il 5%), le linee di navigazione hanno ancora in mano le carte migliori per la negoziazione dei noli.
«Purtroppo, c’è veramente poco che gli shipper possano fare per fronteggiare i nuovi pericoli» avverte van Dort. «Noi vorremmo che fosse il mercato a decidere i prezzi, ma io grandi liner non lo vogliono». Il leader del GSF punta il dito anche contro i Bunker Fuel Surcharges (BAF), che sarebbero stati gonfiati in misura non giustificata: «Con lo scopo di trasferire sui noli le variazioni di prezzo del bunker, le grandi compagnie ottengono un surplus di introiti».
Forse qualcuno vedrà in van Dort il classico provocatore che – non meno diversamente da quanto faceva in “Complotto contro l’America” Walter Winchell quando si trattava di fomentare gli ebrei contro l’anisemitismo del presidente Lindbergh – si diverte a incoraggiare gli shipper a restare attaccati alle loro più paralizzanti ansietà. Sta di fatto che dice il vero quando afferma che «in un settore come quello marittimo è assolutamente essenziale che lo schema normativo in cui i soggetti si trovano ad operare sia chiaro, trasparente e condiviso».
Può darsi che van Dort abbia ragione anche quando sostiene che le esenzioni per categoria stabilite dalla Commissione Europea non sono lo strumento migliore per raggiungere questo obbiettivo.
Con l’estensione fino al 2020 della validità della Liner Consortia Block Exemption Regulation l’Europa sta infatti continuando a permettere ai liner di stringere accordi di cooperazione con altre compagnie e di proporre ai clienti servizi di trasporto gestiti in modo coordinato. Si tratta di un meccanismo che per Dort andrebbe rimosso: «Quella del mare è l’unica industria che gode di questa protezione. La domanda che mi pongo è: perché?».
Dal punto di vista giuridico le alleanze rappresentano un fenomeno ignoto al legislatore comunitario, il quale ha voluto che le esenzioni per categoria si applicassero soltanto ai consorzi marittimi. Al giorno d’oggi le alleanze assumono però diverse forme giuridiche, per cui non sempre è facile distinguere le prime dai secondi.
Per districare la matassa, l’Unione Europea deve valutare caso per caso e si può immaginare quanto tutto questo risulti complesso. Perché allora non fare chiarezza una volta per tutte?