© Michela Canalis
Interviste

Colloquio con Giovanni Satta

La lunga marcia della Cina sui porti europei

di Marco Casale

«Francamente, trovo comprensibile ma forse un po’ eccessivo tutto questo clamore attorno alla vicenda dell’ingresso di Cosco nel terminal Tollerort di Amburgo. Sono ormai anni che le grandi imprese statali o i fondi di investimento del Far East investono in Europa, cavalcando l’onda lunga della Belt and Road Initiative. Eppure sembra quasi che in Germania se ne accorgano soltanto oggi».

Giovanni Satta reagisce con incredulità a chi evoca scenari da guerra coloniale, bollando l’operazione sinotedesca come altamente rischiosa per la sovranità nazionale di un Paese del Vecchio Continente.

Come noto, l’affaire Cosco/Amburgo ha generato un ampio dibattito sulla possibile influenza di Pechino sulle infrastrutture strategiche tedesche ma per il professore associato di economia e gestione delle imprese all’Università di Genova si tratta di un falso problema.

«Investimenti come quelli recentemente realizzati dal colosso cinese sono molto diffusi oggi» afferma. «Se mappassimo tutti i terminal portuali, noteremmo come la maggior parte di essi sia in mano a una state owned enterprise oppure sia partecipata da un Sovereign Wealth Fund. In Italia, ad esempio, diversi terminal portuali si trovano in questa situazione. Si pensi a PSA Genova Prà, controllato per l’appunto da PSA di Singapore».

Secondo Satta il caso Cosco ha fatto più rumore perché si porta dietro una componente di paura e d’ansia: «Molto probabilmente, l’amore iniziale che diversi, oserei dire molti, attori europei nutrivano ab origine nei confronti della Belt and Road Iniative è andato logorandosi con il passare del tempo, sino a sparire del tutto: se prima l’atteggiamento prevalente era mirato a idealizzare gli aspetti win-win della cooperazione con Pechino, oggi, specie all’indomani della Guerra in Ucraina, si tende a considerare tali acquisizioni come il tentativo da parte del Governo cinese di arrivare a controllare supply chain sempre più estese. L’ascesa di questa potenza orientale viene vista dunque, anche sotto il profilo portuale, come una sfida geopolitica alla supremazia delle potenze europee».

In realtà, osservate da un punto di vista strettamente operativo, queste operazioni si traducono spesso e volentieri in un indiscutibile vantaggio per il terminal container interessato dall’acquisizione: «Al pari di Maersk o di MSC, Cosco è un hybrid carrier, ha cioè una propria divisione specializzata nel controllo e nella gestione delle attività terminalistiche. Si tenga conto che queste compagnie di navigazione hanno ormai da tempo sviluppato una propria strategia di integrazione verticale, che li ha condotti a gestire a terra volumi di container (TEU) sempre più vicini per dimensione a quelli movimentati nel ramo shipping» spiega l’esperto.

Inoltre soggetti simili fanno parte di grandi alleanze: «2M (Maersk e MSC), Oceal Alliance (Cma-Cgn, Cosco e Evergreen) e THE Alliance (Hapag-Lloyd, Hyundai Merchant Marine, Yang Ming e ONE) sono in grado di controllare oltre l’80% della stiva mondiale. Il terminal che si assicuri la presenza dentro la sua compagine di uno di questi soggetti può quindi garantirsi una cargo base rilevante e acquisire crescenti quote di traffico».

In letteratura, studi recenti hanno di fatto dimostrato la correttezza di questa osservazione: «La storia ci insegna che la presenza di tali soggetti in un terminal porta a quest’ultimo più benefici che problemi. L’esperienza del Pireo è da questo punto di vista molto significativa: il porto greco è letteralmente esploso da quando è stato acquisito da Cosco, diventando il primo scalo portuale nel Mediterraneo».

Per Satta tali investimenti non vanno dunque ostacolati bensì adeguatamente gestiti. «Quello che occorre fare è cominciare a studiare il fenomeno con un maggiore livello di approfondimento e dettaglio. A livello comunitario andrebbero poi supportati i nostri campioni europei:  MSC o Maersk andrebbero ad esempio incoraggiati a realizzare in Cina, laddove ciò sia possibile, investimenti di portata tale da controbilanciare, in una logica mutualistica, quelli che il Governo cinese ha realizzato o sta realizzando in Europa».

Anche gli enti di governo dei porti devono fare la propria parte. «Il Porto di Amburgo – afferma il docente universitario – non corre alcun rischio di egemonizzazione da parte della Cina perché ha dietro di sé una local community molto forte, in grado di rispondere con una adeguata potenza di fuoco a tutte quelle incursioni che dovessero essere considerate lesive degli interessi dello scalo portuale».

In Italia, il quadro appare  più frastagliato: «Senza un’adeguata capacità di regolamentazione delle politiche concessorie da parte del Governo centrale, le Autorità di Sistema Portuale rischiano di essere irrilevanti nel rapporto sussistente tra concedente e concessionario» sottolinea Satta.

La soluzione ai problemi del sistema portuale italiano non può però essere quella di consentire alle AdSP di acquisire partecipazioni terminalistiche («Il divieto di svolgere direttamente o indirettamente le operazioni portuali rimane un principio cardine della legge 84/94 che, secondo me, va salvaguardato»).

Secondo il professore universitario il Governo dovrebbe invece muoversi in direzione di una corporatisation dei porti: «L’unico modo per farlo è quello di trasformare le Autorità di Sistema Portuale in Spa guidate da amministratori di stampo manageriale, i cui criteri di conferma e revoca siano saldamente ancorati a risultati concreti e misurabili e non a logiche politiche. Si tratta di un processo che oggi sta interessando un numero crescente di Paesi. Forse è arrivato il momento di una svolta anche in Italia».

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