La portualità a livello nazionale e internazionale si trova oggi a dover affrontare importanti sfide. Da un lato il dinamismo e i cambiamenti dei mercati, i quali hanno assistito allo sviluppo dei terminalisti internazionali (HPH, PSA e DP World) e all’integrazione verticale dei grandi carrier nei porti (si pensi a APM Terminals e Cosco), dall’altro l’emergere di maggiori pressioni istituzionali e di tipo regolatorio, soprattutto in merito alle funzioni delle Autorità Portuali (AP) nei mercati e al loro (possibile) ruolo economico nei sistemi logistici complessi.
La crescente competizione tra porti ha stimolato notevoli cambiamenti negli assetti di governance delle AP in molti Paesi, inducendo spesso l’adozione di strategie collaborative o di integrazione/fusione tra di esse. In alcuni casi, troviamo addirittura esempi di fusioni “transfrontaliere” tra scali quali il North Sea Port – costituito nel 2017 dalla integrazione tra la Ghent Port Authority (Belgio) e i Zeeland Seaports (Paesi Bassi) – e il Copenhagen Malmo Port (CMP) che si sviluppa tra Svezia e Danimarca. Tali accordi trovano un’ancora più ampia diffusione all’interno dei singoli contesti nazionali: pensiamo ai porti di Ningbo e Zhoushan in Cina oppure ai processi di fusione in cui scali marittimi di minori dimensioni e “peso” commerciale vengono assorbiti dalle AP di maggior rilievo, come avvenuto nel caso di Valenciaport in Spagna o di Metro Vancouver in Canada.
Al contempo esistono forme collaborative che prescindono dalla fusione in quanto poggiano sul coordinamento di alcune attività operative ovvero sulla gestione congiunta di progetti strategici di comune interesse, come attestano i casi della Northwest Seaport Alliance tra Seattle e Tacoma in USA e della piattaforma HAROPA in Francia, che coinvolge i porti marittimi di Le Havre, di Rouen e l’inland port di Parigi.
Come noto, con la riforma del 2016 anche l’Italia ha intrapreso simili percorsi di razionalizzazione, accorpando le “vecchie” AP in 16 Autorità di Sistema Portuale.
La fusione tra le Autorità Portuali consente di razionalizzare l’organizzazione dell’ente e i relativi processi gestionali, aumentando l’efficienza anche in termini di utilizzazione degli spazi. La realizzazione di un unico piano di sviluppo portuale dovrebbe consentire, almeno in linea teorica, di ottimizzare le risorse a disposizione grazie a una maggiore flessibilità, migliorando il posizionamento competitivo del sistema.
Un altro fattore che certamente ha influito sulle scelte di fusione/collaborazione tra AP è il crescente consolidamento nello shipping di linea, prodotto da M&A tra ocean carrier ma anche dalla proliferazione di consorzi e alleanze strategiche. Per rispondere alle forti pressioni della domanda e fronteggiare gli ingenti investimenti necessari per consentire l’attracco delle mega-navi, i porti hanno cercato tramite processi di integrazione orizzontale di non perdere il loro potere contrattuale nei confronti delle compagnie di navigazione.
I tempi probabilmente non sono ancora pienamente maturi per poter esprimere un giudizio completo in merito ai risultati prodotti da questi processi di fusione o collaborazione tra porti a livello internazionale. In alcuni casi, sono trascorsi pochi anni dall’implementazione mentre, in altri contesti, fattori di tipo episodico e/o congiunturale rendono difficile una valutazione oggettiva.
A tal proposito, va riconosciuto che un elemento in grado di influenzare non poco il successo (o l’insuccesso) dell’integrazione tra AP è il livello istituzionale che si è fatto promotore del processo, il quale può venire innescato sia da meccanismi di tipo top-down, in base alle indicazioni del governo nazionale (come avvenuto in Italia con il D.lgs. 169/2016), sia bottom-up, su iniziativa autonoma delle singole AP o delle istituzioni locali. Gli esperti evidenziano inoltre come i risultati della cooperazione possano essere determinati dallo sfruttamento di specifiche “finestre” di opportunità.
Le dinamiche istituzionali, politiche e di mercato costituiscono un fattore fondamentale per il successo o il fallimento di una strategia di cooperazione. Nello specifico, le AP devono saper valutare le potenziali criticità che possono emergere durante l’implementazione, criticità imputabili al diverso potere contrattuale e politico degli stakeholder interni ed esterni, oppure alle differenze legate alla struttura organizzativa e alla visione strategica.
Fusioni e meccanismi collaborativi presentano inoltre un forte carattere di specificità territoriale (regionale in particolare), per cui i modelli di cooperazione e gli assetti di governance adottati tra due AP potrebbero non essere replicabili con successo in altri contesti.
Da questo punto di vista il processo di integrazione tra le AP in Italia è da poco cominciato e, a giudicare dai primi risultati, se ne intravvedono alcune interessanti potenzialità anche in chiave commerciale, ma emergono anche limiti e forse qualche errore di impostazione.
La nuova dimensione delle AdSP può consentire la realizzazione di effetti sinergici e di razionalizzazione in ambito organizzativo, pianificatorio e commerciale, anche grazie a una “massa critica” più vicina a quella di scali di caratura europea.
La definizione dei perimetri degli accorpamenti delle vecchie AP non appare tuttavia sempre coerente per favorire il conseguimento degli obiettivi prima auspicati e, forse, qualche successivo “aggiustamento” si renderà necessario.
Inoltre, aspetto ben più grave, il nostro sistema portuale attende da troppi anni l’adozione di dispositivi quali il regolamento delle concessioni portuali e il DPCM per l’implementazione dello Sportello Unico Doganale e dei Controlli, nonché l’introduzione di tutta una serie di strumenti semplificatori in ambito amministrativo per una più efficace gestione dei diversi livelli di progettazione e degli appalti delle opere, per la tempestiva realizzazione di manutenzioni e dragaggi, per la gestione delle forniture e il reclutamento del personale.