La Corte di Giustizia dell’Unione europea è tornata ad occuparsi delle concessioni demaniali turistico-ricreative, essenzialmente (ma non esclusivamente) balneari in Italia.
E’ forse utile riassumere i termini della questione, per meglio comprendere la portata della sentenza e le prospettive.
Il lido e la spiaggia sono beni pubblici demaniali, insuscettibili di appropriazione privata, perché destinati a consentire i pubblici usi del mare nell’interesse generale. L’amministrazione, tramite le concessioni, può creare diritti esclusivi a tempo in capo ad operatori economici, per l’esercizio degli stabilimenti balneari su una parte delle aree demaniali marittime, mentre un’altra parte di esse deve restare libera. In questo modo viene offerta agli utenti, a titolo oneroso, l’opportunità di una fruizione più confortevole e sicura della spiaggia e del mare. I concessionari sopportano le spese, di investimento e correnti, per organizzare e gestire lo stabilimento, pagano un canone allo Stato e trattengono per sé i ricavi generati dalla loro clientela.
Per le concessioni è previsto un termine, tendenzialmente breve ma che può avere un più ampio respiro in rapporto all’entità degli eventuali investimenti del concessionario fatti direttamente sul compendio demaniale e destinati ad accrescerne il valore, i quali devono essere previamente approvati ed autorizzati dal concedente.
Fin da epoca remota per l’assegnazione delle concessioni è stata prevista una procedura con caratteri di pubblicità e di concorrenza. Una norma prevedeva tuttavia che, allo scadere del termine della concessione, il titolare uscente avesse un diritto di preferenza, nel caso in cui dal procedimento selettivo emergesse una sostanziale parità delle domande dei contendenti, rispetto al pubblico interesse.
La concreta applicazione di queste discipline ha comportato nei fatti che, malgrado la durata tendenzialmente breve prevista per le concessioni, i titolari abbiano avuto plurimi rinnovi a scadenza e, quindi, molti si siano consolidati nei rispettivi stabilimenti. Non di rado essi hanno realizzato investimenti, confidando sul protrarsi di tale situazione, anche indipendentemente dalla residua durata formale dei loro titoli concessori. A volte si è trattato di investimenti diretti sul bene demaniale, destinati a conservare il loro valore per l’amministrazione pubblica anche in caso di avvicendamento del concessionario; in altri casi, di spese inerenti alle dotazioni o all’esercizio dell’azienda del concessionario, destinate ad ammortamento pluriennale ma non influenti in modo diretto sui beni del demanio.
A partire dal 2009 il legislatore italiano ha disposto proroghe automatiche generalizzate delle concessioni in scadenza, a beneficio dei rispettivi titolari, dapprima al 2015, poi al 2020 ed al 2033, con la prospettiva di porre mano, nel frattempo, ad una riforma della disciplina di settore.
Questo complessivo quadro è stato destabilizzato quando è emerso dall’elaborazione giuridica, in particolare dovuta all’evolversi ed all’affinarsi del diritto dell’Unione europea, come noto prevalente anche sulla legislazione nazionale, non solo che le concessioni devono essere assegnate con procedure pubbliche competitive, ma anche che non può esservi spazio per il diritto di preferenza del concessionario uscente, né per proroghe generalizzate disposte dalla legge. La ragione di questi vincoli si deve all’osservanza dei principi europei relativi alla libertà di stabilimento degli operatori economici, in pratica alla necessaria accessibilità dei mercati e delle attività economiche in condizioni di trasparenza e di concorrenza.
A più riprese i giudici italiani hanno preso a ritenere che le amministrazioni concedenti non dovessero applicare le norme nazionali relative alle proroghe succedutesi dal 2009 e che, invece, occorresse assegnare con gare le concessioni ormai scadute. Tale questione è stata portata una prima volta all’attenzione della Corte di giustizia dell’UE, chiamata a fornire la corretta interpretazione del diritto europeo e, quindi, nei fatti a stabilire i vincoli che esso impone tanto ai legislatori quanto alle amministrazioni nazionali. La decisione, resa nel 2016, è stata nel senso dell’incompabilità, con il diritto unionale, delle proroghe delle concessioni stabilite con legge in Italia. Nel 2021 ha giudicato in tal senso anche il Consiglio di Stato, in Adunanza plenaria.
Di conseguenza il legislatore, nel 2022, con la legge n. 118, ha previsto la fine delle proroghe generalizzate e la necessità di gare pubbliche per l’assegnazione di tutte le concessioni balneari già scadute e finora sopravvissute in forza di proroghe legali.
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per parte sua, ha preso dapprima a segnalare alle amministrazioni l’esigenza di osservare tali regole e, in seguito, ad impugnare atti di quelle che seguitavano ad accordare proroghe ai concessionari. Da una di queste controversie è emerso qualche residuo dubbio interpretativo del Tar Puglia, che ha dato vita alla più recente decisione della Corte di giustizia dell’UE.
Questa è stata pienamente confermativa della procedente ed ha nei fatti convalidato la posizione nel frattempo assunta dal Consiglio di Stato, dall’Autorità garante della concorrenza e dalla legge n. 118/2022.
Il punto di arrivo consiste, allo stato, nella necessità di esperire rapidamente le gare, come previsto nella legge richiamata, salvi ulteriori interventi del legislatore nazionale. Questa soluzione, almeno per il ceto dei giuristi specialisti della materia, risultava alquanto chiara al più tardi fin dalla prima sentenza resa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nel 2016.
Ma il mondo non ruota esclusivamente intorno al diritto. La politica e gli operatori hanno indugiato su altre strade. Sul campo i problemi aperti, anche dopo quest’ultima sentenza della Corte europea, non mancano.
Un tema discusso è quello degli investimenti fatti nel tempo dagli operatori e dei modi in cui eventualmente se ne dovrà tenere conto nelle gare. In merito probabilmente occorre distinguere. Quelli regolarmente approvati dal concedente e tali da incrementare in modo durevole il valore dei beni demaniali, dovrebbero poter essere ammortizzati, all’occorrenza anche a carico degli eventuali vincitori delle gare diversi dai concessionari uscenti. Invece per altri investimenti aziendali il quadro appare meno netto.
Un altro tema, forse ancora poco discusso ma probabilmente più spinoso, riguarda un apparente difetto di coordinamento fra la disciplina giuridica e le caratteristiche concrete del mercato.
Appare difficile immaginare che un operatore economico serio e qualificato investa risorse ed energie in un’attività, come quella di uno stabilimento balneare, con un orizzonte temporale limitato al ridotto tempo della concessione demaniale e la prospettiva della gara a scadenza. A meno che non si tratti di un’impresa di una certa taglia, che partecipa a tante gare, si aggiudica un certo numero di concessioni e, quindi, non risulta irrimediabilmente colpita in caso di soccombenza in una specifica gara; oppure di una grande impresa principalmente dedita ad altre attività (ad esempio alberghiere, crocieristiche, ecc) che può investire risorse nella gara e nel rapporto concessorio per trarne un beneficio anche solo temporaneo, ma con effetto di leva o di completamento rispetto ad un altro business.
In altri termini, la struttura giuridica del mercato, per come risultante dalle sopra riportate evoluzioni, non sembra particolarmente adatta alle concrete caratteristiche degli attuali operatori balneari italiani, largamente costituiti da micro imprese a conduzione individuale o familiare, concentrate su un unico stabilimento.
La situazione attuale sembra quindi destinata a produrre un fenomeno di concentrazione sul mercato (qualcosa di simile è avvenuto, ad esempio, nel settore degli acquedotti a partire dalla riforma di quel settore, del 1994).
A meno che la politica italiana, e quindi il legislatore nazionale, concepiscano una riforma più profonda – ancora largamente da immaginare – al tempo stesso volta a consentire la sopravvivenza dell’attuale tessuto produttivo nel settore balneare e rispettosa dei principi e delle regole dell’Unione europea.