Per gentile concessione dell’editore Rubbettino, pubblichiamo un capitolo del saggio “Il futuro del sistema portuale meridionale tra Mediterraneo e Via della seta”
La ritrovata centralità del Mediterraneo non è data una volta per sempre. La ricerca di rotte convenienti per i commerci internazionali, assieme al controllo all’accesso delle risorse e delle materie prime, costituisce una frontiera mobile in continua evoluzione. Nella storia dell’umanità la scoperta e il controllo delle rotte hanno sempre costituito una chiave di accesso alle risorse e alla supremazia, economica e politica.
La creazione di ricchezza e di valore aggiunto è data sempre dalla capacità di intercettare le correnti di traffico, oltre che dalla struttura di un sistema manifatturiero che deve essere in grado di stare sulla frontiera dell’innovazione tecnologica. La genesi – e l’aggiornamento costante – dei vantaggi competitivi tra sistemi economici e tra imprese si gioca proprio sulla capacità di governare e controllare gli accessi alle rotte e alle risorse.
Sinora alcuni territori erano stati esclusi dalla competizione, perché erano indisponibili all’utilizzo commerciale. Proprio lo sfruttamento intensivo della natura, e il surriscaldamento globale, sta determinando l’emersione di nuovi mari e di nuove terre, che diventano armi di confronto concorrenziale nella definizione della geopolitica del mondo.
Appare un paradosso singolare che proprio lo sfruttamento intensivo della natura e l’alterazione degli equilibri del pianeta stia determinando come esito quello di portare alla luce altri territori da sottoporre a ulteriori sfruttamenti intensivi. Il paradosso è tale sino a un certo punto. Sta nella logica del capitalismo predatorio continuare ad alimentare se stesso. È come il Conte Ugolino che divora i suoi figli.
Gli esiti che si determineranno per effetto di questo ulteriore stress al quale sottoponiamo le risorse naturali saranno certamente negativi per gli equilibri già precari della sostenibilità complessiva del pianeta. Mentre nei passati decenni si è tentato di strutturare un meccanismo di cooperazione internazionale finalizzato a tenere sotto controllo gli effetti negativi dello sviluppo economico, che mette a repentaglio l’equilibrio climatico del pianeta, a valle della crisi internazionale dei passati decenni il cinismo della crescita a tutti i costi è tornato a fare capolino.
I buoni propositi per la salvaguardia dell’ambiente e per la riduzione dell’impronta economica sul destino del pianeta sembrano tornati in soffitta, mentre si mettono in discussione anche le evidenze sul riscaldamento climatico. In qualche modo la salvaguardia delle risorse naturali sembra ancora una prerogativa per anime belle, non ancora un’esigenza vitale per la sostenibilità complessiva del pianeta.
Dobbiamo essere consapevoli che, sino a quando continuerà a prevalere una logica di sfruttamento intensivo della terra, questi effetti perversi diventano a loro volta nuova rincorsa all’ulteriore sfruttamento, in una spirale viziosa che rischia di sommergerci tutti. Le ricerca di nuove frontiere per un nuovo ciclo di appropriazione di risorse è ancora una delle leve per lo sviluppo capitalistico, secondo il vecchio modello intensivo di assoggettamento della natura alla tecnica.
Sta emergendo – è il caso di dirlo usando proprio questo verbo – la rotta artica. Dal 2011 a oggi in Groenlandia sono scomparse ogni anno 375 miliardi di tonnellate di ghiaccio, l’equivalente di un cubo di 8 chilometri per lato e di quattrocento milioni di piscine olimpiche. In pochi anni un’estesa regione del mondo sta assumendo una configurazione completamente differente rispetto a quella alla quale eravamo abituati.
La natura dei cambiamenti strutturali nell’Artico ha assunto ritmi di progressione geometrica. A settembre del 2012 la Nasa ha annunciato che la superficie di Oceano gelato era di 3,4 milioni di chilometri quadrati contro gli 8 del 1970. La Terra aveva perso una fetta di ghiaccio grande quasi quanto la California. Secondo Nature Climate Change nel 1985 circa il 45% della superficie artica era composta da ghiaccio pluriannuale; nel 2016 era ridotta al 22%.
Le implicazioni di questo cambiamento strutturale sono molteplici, anche dal punto di vista della prospettiva logistica internazionale. «La Via Marittima Settentrionale, la rotta artica che sta rivoluzionando le strategie del commercio globale, praticamente dimezza il trasporto Asia-Europa rispetto alla tradizionale rotta via Suez» (Mian, 2018, p. 67). La distanza tra Rotterdam, il porto più trafficato d’Europa, e Yokohama in Giappone è di 11.250 miglia nautiche passando da canale di Suez, mentre è di 7.350 miglia scegliendo la Northern Sea Route, lungo le coste artiche russe.
I primi segnali di una commercializzazione su scala industriale della rotta artica cominciano a emergere: la principale compagnia di trasporto contenitori, Maersk, ha annunciato il viaggio sperimentale della Venta Maersk, unità da 3.600 TEU, con partenza da Vladivostok e arrivo a San Pietroburgo, con un carico di pesce congelato. Tale percorso sta diventando sempre più interessante in particolare per il trasporto marittimo di petrolio e di gas, perché la rotta è molto più breve rispetto a quella che prevede il transito delle navi attraverso il Canale di Suez.
Nelle stesse settimane la nave Tian’en, progettata dal colosso cinese Cosco per farsi strada tra i ghiacci, ha completato il suo viaggio sperimentale dal porto di Lianyungang, a nord di Shanghai, per giungere a Rouen in Francia, varcando lo stretto di Bering e circumnavigando la Russia attraverso il circolo polare. In un documento pubblicato a gennaio 2018 il governo cinese ha messo in evidenza la sua politica artica: pur non essendo possessore di territori in quel quadrante, la Cina si è definita «uno Stato dell’area artica», rivendicando il suo diritto a partecipare alla governance politica e dichiarandosi capofila del canale commerciale che la dovrebbe attraversare.
Chi lavora strategicamente pensando all’apertura e al consolidamento di questo itinerario si spinge a immaginare che entro 10 anni il 20% dei mercantili possano passare per le rotte polari. Si tratta esattamente della quota di mercato che oggi detiene il Mediterraneo nella ripartizione dei traffici mondiali. Insomma, l’emersione di questa nuova rotta non sarà evidentemente neutrale per la riorganizzazione dei flussi marittimi e per la geopolitica internazionale.
La Baia di Finnafjord, in Islanda, si prepara a diventare entro una decina d’anni un nuovo centro nevralgico della globalizzazione. Si costruirà in quell’area un porto, una delle più grandi opere del Nuovo Artico. Il progetto è finanziato dall’autorità portuale di Brema, da un pool di imprese islandesi, ma sono presenti anche capitali cinesi, di Singapore, oltre a fondi di investimento come la Guggenheim Investments.
«Si parla di 15 miliardi di dollari. La baia diventerà la porta della rotta transpolare da e per il Nord Atlantico, con 6 chilometri di banchina, in grado di accogliere i mercantili portacontainer cinesi da 400 metri e larghi 60; 2000 ettari di depositi di stoccaggio di petrolio e gas, complessi per la trasformazione delle materie prime provenienti da Canada e Groenlandia, centri servizi, quartieri abitativi, hotel, scuole, banche, aeroporto» (Mian, 2018, p. 150).
Insomma, una Nuova frontiera, una nuova caccia all’oro, un nuovo West da conquistare e da sottomettere. Come se intanto nulla avessimo appreso dalle lezioni che pur comunque dovremmo aver imparato circa le conseguenze di uno sviluppo intensivo, destinato a modificare profondamente le condizioni climatiche e la sostenibilità dell’intero pianeta.
L’apertura della rotta artica è fortemente connessa anche allo sfruttamento delle risorse naturali che sono contenute in quei territori, e che diventano a loro volta giacimenti di traffico e di ricchezza che possono alterare gli equilibri dei mercati internazionali, in una logica di rincorsa verso l’esaurimento delle risorse naturali e verso l’alterazione ulteriore degli equilibri climatici del pianeta.
L’incrocio tra nuova rotta marittima e sfruttamento delle risorse minerarie determina un potenziale ancora maggiore per lo sviluppo portuale di quei territori. Va sottolineato difatti che la gestione dei traffici energetici costituisce, da sempre, una delle aree di maggiore rilievo per la competitività degli scali marittimi, pur se tale aspetto non sta spesso sotto la lente dei riflettori.
La fame crescente di fonti energetiche e di materie prime, in un mondo che ha allargato i confini dello sviluppo industriale, diventa il propulsore in base al quale si stanno costruendo progetti strategici di riarticolazione geografica del capitalismo, alla ricerca di soluzioni che garantiscano uno sfruttamento sempre più intensivo del modello di organizzazione produttiva oggi dominante.
Secondo la United States Geological Survey nel Nord Est della Groenlandia si nascondono trentadue milioni di barili di petrolio equivalente. I grandi interessi economici si muovono attorno all’accaparramento continuo delle risorse naturali: la Shenge Resources Holding Ltd di Shangai, gigante economico per lo sfruttamento delle terre rare, ha acquisito il 12,5% delle azioni della GME, altro colosso australiano, con un’opzione a salire sino al 60% del capitale una volta ottenute le concessioni per l’avvio dell’attività. Anche i cinesi guardano dunque con occhio attento alle potenzialità derivanti dal controllo delle nuove risorse che stanno emergendo nella zona artica.
È già cinese la miniera più a nord del mondo: si trova in un’ansa del Citronen Fjord e si tratta di un immenso deposito di zinco venuto alla luce dopo il ritiro del ghiacciaio. La China Nonferrous si è impegnata da un lato a costruire un intero villaggio che ospiterà quattrocento minatori cinesi e dall’altro a trasportare in Cina un terzo del materiale grezzo.
Si apre dunque una nuova frontiera dello sviluppo economico e logistico. «L’Artico è l’area del mondo che cresce più velocemente, 11% all’anno, nonostante sia abitato da soli 4 mi- lioni di persone, di cui 500mila indigeni. Un oceano che con- tiene circa il 40% delle riserve combustibili fossili del mondo, ma anche un gigantesco deposito di proteine. Il 50% del pesce consumato negli Stati Uniti arriva dall’Alaska, pescato entro le 200 miglia nautiche della zona economica esclusiva» (Mian, 2018, pp. 105-106).
Nell’Artico si confrontano, di conseguenza, gli interessi delle grandi potenze internazionali: «Per i russi, che occupano 6000 chilometri di costa – quasi il doppio della distanza tra New York e S. Francisco – l’Oceano Artico è cosa loro, come il Mediterraneo fu Mare Nostrum per i romani. Così, se nel 2017 gli Stati Uniti non hanno celebrato i 150 anni della cessione dell’Alaska da parte dello zar Alessandro II, i russi hanno colto l’occasione per immaginare come sarebbe andata la storia se non avessero subito quella che ritengono una rapina […] In termini di capitale geopolitico, in base alle rivendicazioni russe sulla piattaforma continentale l’80% delle risorse fossili artiche sarebbero in mano russa […] Praticamente tutta la produzione di gas arriva dall’Artico, con una riserva di 43 trilioni di metri cubi e una potenzialità di 73 trilioni estraibili» (Mian, 2018, pp. 97-106-129).
Il prossimo decennio vedrà le potenze internazionali impegnate nel confronto sulla rotta artica, e sul controllo delle risorse naturali che derivano dalle terre emerse. Questo grande gioco non sarà estraneo alla riconfigurazione delle rotte marittime internazionali e agli scenari di geopolitica che si confronteranno per stabilire gli equilibri tra gli attori della scena mondiale. Anche su tale fronte, come per lo scenario mediterraneo, l’Europa marca una sua assenza, in quanto è solo presente indirettamente attraverso il legame che esiste tra Danimarca e Groenlandia. Troppo poco per far pesare gli interessi complessivi del vecchio continente in una partita che vede impegnati strenuamente sul terreno Stati Uniti, Russia e Cina.
Sarebbe in realtà interesse di tutti evitare uno sfruttamento intensivo dell’Artico, per scongiurare un’ulteriore accelerazione nella condizione di degrado che già mina la qualità di vita della comunità internazionale per i prossimi decenni. «Entro il 2050, stando alle proiezioni due anni dopo l’attracco definitivo a terra dell’ultimo peschereccio commerciale, in mare ci sarà più plastica che pesce» (Raj Patel, 2017, p. 33).
Non dobbiamo dare dunque per scontato che il Mediterraneo possa mantenere il vantaggio strategico che ha recuperato recentemente con il raddoppio del canale di Suez. Tanti segnali inducono a dire che la regione artica possa essere un competitor agguerrito, un terreno di confronto e di scontro tra le grandi potenze per prendere possesso di enormi risorse naturali prima inaccessibili e per disegnare nuove rotte del commercio mondiale.
I costi di questo sfruttamento intensivo del pianeta possono ritorcersi contro tutti noi, peggiorando rapidamente i segnali già presenti sul surriscaldamento globale e sull’alterazione climatica, che rischia di diventare irreversibile. Tutti gli sforzi che sono stati condotti per mettere sotto controllo le emissioni nocive con i vertici internazionali degli ultimi decenni non si sono confrontati con la prospettiva artica.
Dobbiamo essere consapevoli che anche su questo fronte occorrerà misurarsi, non solo per stabilire la supremazia economica, ma forse anche per comprendere quale sia il livello di so- stenibilità ambientale ed economica che ci possiamo permettere.
«Non c’è nulla come una crisi ecologica per ricordare alla civiltà che la natura non è mai cheap. Il cambiamento climatico rende impossibile ignorare il cambiamento planetario della nostra vita quotidiana. L’intensità e la frequenza in questi ultimi anni degli eventi meteorologici estremi sono state ineludibilmente chiare […] Lo stress da temperature crescenti, con ricadute letali su bambini e anziani, potrebbe rendere inabitabile il Medio Oriente entro la fine del secolo» (Raj Patel, 2017, p. 66).
Stiamo ancora sottovalutando le ricadute concrete derivanti dall’impatto dei cambiamenti climatici sulla natura. Siamo stati abituati per un tempo troppo lungo a considerare l’ambiente un territorio di sfruttamento commerciale senza limite, con la conseguenza che oggi non siamo nemmeno in grado di immagi- nare le conseguenze della trasformazione epocale che noi stessi abbiamo determinato: «Ogni ulteriore aumento di un grado Celtius nella temperatura globale media è accompagnato da un maggiore rischio di effetti drammatici e non lineari sull’agricoltura. Nel prossimo secolo i rendimenti agricoli caleranno tra il 5 e oltre il 50% […] L’agricoltura mondiale assorbirà due terzi di tutti i costi del cambiamento climatico entro il 2050» (Raj Patel, 2017, p. 145).
Insomma, ci troveremo di fronte alla necessità di governare fenomeni migratori derivanti dal cambiamento climatico e alla necessità di generare nuovi modelli di produzione agricola che siano in grado di attenuare l’impatto della decrescente produttività dei terreni.
Nonostante i rischi connessi alla colonizzazione artica che sta iniziando, questa rotta molto probabilmente diventerà co- munque un’alternativa rilevante rispetto al Mediterraneo sullo scacchiere marittimo internazionale. Il rischio che si vengano a saldare gli interessi dei porti del Nord Europa con i processi di sfruttamenti intensivo delle risorse naturali artiche è concreto e reale.
Il Mediterraneo potrebbe trovare, dopo Atlantico e Pacifico, un terzo fronte capace di determinare una sua prossima marginalizzazione. È bene esserne consapevoli, non solo per monitorare gli sviluppi di ciò che accadrà sul versante della riorganizzazione delle rotte marittime internazionali. Occorre cogliere anche questo potenziale nuovo fronte di sfida che si apre anche come l’occasione per accelerare la definizione di politiche europee unitarie e di respiro strategico sul versante della portualità e dell’economia marittima.