Si parla da tempo di una riforma dei trasporti e delle infrastrutture portuali. Una necessità, certamente, soprattutto se consideriamo che a trent’anni di distanza dalla sentenza Porto di Genova non siamo ancora riusciti a rendere i porti coerenti con i principi dell’ordinamento europeo.
Influenzati da corporativismi e da una politica locale sempre meno colta e di fatto sempre più esorbitante, i porti italiani si autoregolano come e prima del 1991. E contemporaneamente si appalesano sempre più marginali rispetto ai sistemi portuali del Nord Europa, anche per via dell’inadeguatezza dei collegamenti di rete che pure la Comunità europea aveva imposto sin dagli anni novanta.
La stessa Decisione del Tribunale di Lussemburgo dello scorso 20 dicembre, che, sulla base di una giurisprudenza consolidata, ha pronunciato la natura di impresa delle Autorità portuali ai sensi dell’articolo.101, tfue, conferma la sconfitta della generazione che aveva creduto nella legge 84 /94 e nella funzione pubblicistica e regolatoria di questi Enti: che dal rappresentare una risoluzione al problema sono oggi diventati essi stessi il problema, al pari dei vecchi enti porti.
Ben venga, quindi, una scelta definitiva e a testa alta sulla natura delle AdSP. Si tratta in sostanza di scegliere: a) se confermare l’impostazione di “ente pubblico non economico”, che non opera nel mercato, né direttamente né indirettamente, ed il cui scopo è assicurare il buon funzionamento dei porti collaborando a pari livello con la Commissione europea, l’Autorità garante e l’ART; b) o se invece dare luogo a tante imprese pubbliche di gestione delle infrastrutture al servizio dei grandi e piccoli operatori di traffico, localizzandosi, in questo caso, in capo al Ministero i poteri concessori e di amministrazione pubblica (soluzione, quest’ultima, non solo auspicabile ma oltretutto necessaria, specie se si considera l’evoluzione del mercato rilevante portuale sotto il profilo geografico – non certo coincidente con la circoscrizione portuale).
Sarebbe bene scegliere con nettezza evitando situazioni ibride che i prossimi governi sarebbero poi chiamati a riconsiderare, specialmente evitando di ricadere nella figura dell’ente porto precedente alla legge 84 che, per il conflitto che generava, ha stimolato l’intervento della Commissione.
Ma, a ben vedere, quella di cui parliamo è una riforma tanto necessaria e coraggiosa ( vi sarà una ragione se tutti i cambiamenti della legge 84 dal 1996 ad oggi sono stati timidi e poco più che un maquillage!) quanto inadeguata, da sola, a qualificare una convincente politica nazionale dei trasporti. I traffici sono, infatti, ordinati da alcuni macro – fattori che prescindono totalmente dalla legge 84.
I traffici dipendono, anzitutto, dalle scelte di quattro, cinque compagnie mondiali, che di fatto controllano le leve della politica dei trasporti, non avendo certo la necessità di concordarla con i singoli governi.
Le scelte di queste compagnie globali, che da sole fanno la differenza, specie nel caso dei porti italiani, comportano anche importanti investimenti verticali nel settore delle infrastrutture portuali, della logistica e dei servizi. Il futuro, ed anche il presente, di queste compagnie merita di essere seguito, regolato e finanche sostenuto, dai governi europei che si prefiggono una politica espansiva in un contesto geoeconomico molto difficile.
In secondo luogo non vi è nessuno che non veda il ritardo gravissimo nella realizzazione dei corridoi che, secondo la programmazione europea, avrebbero dovuto ancorare il Mediterraneo all’Europa e lanciare una sfida ai porti del nord. Si pensi al ritardo del Terzo valico e del Brennero quando invece i tunnel del Loetchberg, del Gottardo, di Monte Ceneri e dei Tauri sono operativi da anni; si pensi al fallimento del corridoio Mediterraneo, ormai limitato a ovest verso il Frejus e a est verso Divaca, sostituito da un importante parallelo corridoio in Svizzera fra Ginevra, Zurigo e Monaco, destinato a connettersi con i porti del Northern range e ora persino con i porti spagnoli.
In terzo luogo, la grave instabilità internazionale produce effetti negativi evidenti ( e non, come alcuni ritenevano, grandi opportunità). Il Mediterraneo, e non il Nord Europa, corre un gravissimo rischio a causa dei tanti conflitti che questa generazione non è riuscita a evitare, segnatamente, oggi, a causa della crisi del Mar Rosso dovuta a Yemen, Iran e ai paesi del blocco economico che si contrappone all’Occidente. Una congiuntura che certo non si risolve con una missione militare (dalla quale l’Europa e il nostro Paese hanno deciso di prendere le distanze) e che impone un dialogo serio, specialmente con la Cina.
E’ quindi giusto che, nel prevedere una riforma, si individui un nuovo ente centrale che curi non tanto la gestione dei porti ma proprio la politica dei trasporti a tutto campo, in assoluta sintonia con gli altri Paesi interessati al Mediterraneo e con la Commissione europea. Anche perché una efficace politica dei trasporti non può che essere a tutti gli effetti europea, con le conseguenti modifiche del timido impianto vigente ai sensi dell’art.171, tfue.