© free photo via Itoldya (CC0 1.0)
Interventi

Il futuro incerto delle concessioni balneari

Quell’inerzia che danneggia il Paese

di Alfonso Mignone

Avvocato navigazionista

Non desta stupore, agli occhi di un giurista attento alle vicende di un settore peculiare come quello del diritto della navigazione, la recente decisione del TAR Liguria – Genova che non ha ritenuto applicabile alle concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo la proroga al 2027 di cui alla Legge 14 novembre 2024, n. 166, di conversione del Decreto Legge 16 settembre 2024, n. 131, modificativa degli artt. art. 3, comma 3, e 4 Legge 5 agosto 2022 n. 118 (cd. “Salva Infrazioni”).

Al di là dei “pro” e “contro”, nel merito della pronuncia, non erra il giudice amministrativo quando sostiene che “Non vale invocare un accordo tra lo Stato italiano e la Commissione europea, secondo cui le amministrazioni avrebbero l’obbligo di prorogare le concessioni balneari sino al settembre 2027; e ciò sia perché non risulta esistente un documento scritto racchiudente tale patto sia in quanto, in ogni caso, un simile accordo non potrebbe prevalere sul dictum della Corte di Giustizia in ordine all’incompatibilità unionale del rinnovo automatico delle concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative, essendo la Curia europea l’organo deputato all’interpretazione autentica del diritto eurounitario, con effetti vincolanti sia nei confronti delle autorità nazionali che delle altre istituzioni dell’Unione”.

Oramai ogni nuovo governo, nel tentativo (sacrosanto) di offrire risposte ad una categoria ormai devastata, come quella troppo genericamente indicata come “balneari” è costretto a districarsi tra tortuosi e contrapposti interessi come la tutela del legittimo affidamento del concessionario uscente e quella della concorrenza.

Tralasciando per ovvi motivi di spazio le vicende susseguitesi dal 2015 al 2024 che hanno visto il Legislatore intervenire con soluzioni normative “tampone” tutt’altro che risolutorie, le fattispecie sottoposte al vaglio della giurisprudenza amministrativa sono state puntualmente messe in discussione alla luce delle note pronunce della Corte di Giustizia e dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in virtù di un insanabile contrasto con i principi del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e con i dettami della Direttiva 123/2006/CE al netto delle perplessità interpretative che quest’ultima ha destato per gli addetti ai lavori.

Dal punto di vista operativo non bisogna poi tralasciare un altro aspetto: l’ “inerzia” del Legislatore, che si è avvalso sistematicamente della “proroga” per procrastinare una soluzione definitiva di tale contrasto è istituto sconosciuto al codice della navigazione e nemmeno considerato nella modulistica del SID – Portale del Mare – del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Il testo licenziato “frettolosamente” dall’attuale Governo si rivela l’ennesima “operazione taglia e cuci” che, formalmente, non ha apportato sostanziali novità ad una materia complessa se non sancire, qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, che le strutture portuali della nautica, avendo una propria specificità, non rientrano nella citata direttiva.

Nulla di nuovo in tal senso in quanto l’articolo 1, comma 1, del Decreto Legge 5 ottobre 1993, n. 400, convertito, con modificazioni, dalla Legge 4 dicembre 1993, n. 494, in ordine al settore nautica e portualità turistica, aveva già circoscritto la finalità turistico-ricreativa, alla lett. c), alle sole attività di “noleggio di imbarcazioni e natanti in genere”.

Il concetto veniva poi ribadito dall’art. 13, comma 1, della Legge 8 luglio 2003, n. 172 recante “Disposizioni concernenti le concessioni di beni demaniali marittimi per finalità turistico-ricreative nonché l’esercizio di attività portuali”.

I procedimenti relativi alle concessioni per porti turistici, approdi e punti di ormeggio, che trovano disciplina nell’art. 2 del Decreto Presidente della Repubblica 2 dicembre 1997, n. 509 concernente “Regolamento recante disciplina del procedimento di concessione di beni del demanio marittimo per la realizzazione di strutture dedicate alla nautica da diporto”, restano “fuori” dalla predetta direttiva.

L’esclusione della portualità turistica è giustificata da un’interpretazione autentica dell’art. 2, comma 2, lett. d), della richiamata direttiva, il quale dispone “che sono esclusi dal proprio campo di applicazione, i servizi nel settore dei trasporti, ivi compresi i servizi portuali”.

Di fronte alla continua riproposizione di argomentazioni generiche sconnesse da ogni analisi tecnico – giuridica  questa è l’unica certezza.

Chi scrive ha sempre sostenuto che non può più essere la giurisprudenza amministrativa – ciclicamente controversa – a dettare le “regole del gioco” anche se conciliare le disposizioni del codice della navigazione con la proliferazione normativa scaturita all’indomani della rivoluzione apportata dal decentramento amministrativo e dalla “regionalizzazione” della materia del turismo non è certamente impresa da poco.

Tralaltro non si comprende il perché del mancato avvalimento della normativa sulla Pianificazione degli spazi marittimi di cui alla Direttiva 2014/89/UE, attuata tardivamente (e male, vista la procedura d’infrazione che ne è seguita nel 2024) con il Decreto Legislativo n. 201 del 17 ottobre 2016.

Infatti il Piano di gestione dello spazio marittimo, da elaborarsi a cura di un comitato tecnico istituito presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, può fornire indicazioni di livello strategico e di indirizzo per ciascuna area marittima e costituisce il riferimento per altre azioni di pianificazione e per il rilascio di concessioni o autorizzazioni anche perché dotato di efficacia giuridica sovraordinata rispetto a tutti gli altri piani e programmi capaci di avere effetti sul suo medesimo ambito applicativo – non solo quelli aventi a oggetto le acque marine, ma anche quelli concernenti attività terrestri che possono avere effetti sulle acque marine – rispondendo agli obiettivi per la pianificazione dello spazio marittimo nazionale.

Dopo il lancio del cd. “Piano del Mare” e la costituzione del Comitato Interministeriale delle Politiche del Mare l’unica strada percorribile è una legge – quadro che non solo “pianifichi” ma “armonizzi” peculiarità degli istituti e principi comunitari.

Restiamo fiduciosamente in attesa. Una soluzione a tale annoso problema  è auspicata non solo dagli operatori del settore ma anche da chi, a vario titolo, ne segue professionalmente le vicende.