Ci ricordiamo del lavoro portuale solo quando avviene qualche incidente grave, come purtroppo è accaduto recentemente, oppure in occasione di aspri confronti sindacali legati all’organizzazione del lavoro in porto (autoproduzione), oppure in relazione alle difficoltà di equilibrio dei conti dei Pool di manodopera (come nel caso della CULMV di Genova), meno di frequente si considera il dock labour come un asset fondamentale per la competitività degli scali italiani.
É stato il presidente dell’Autorità di Sistema del Mare Adriatico Orientale, Zeno D’Agostino, a sottolineare, invece, quanto sia importante oggi investire nella formazione e riqualificazione professionale delle risorse umane per garantire qualità e condizioni di lavoro compatibili con uno scalo moderno; il numero uno della Torre Lloyd lo ha fatto in occasione della firma dell’accordo di cooperazione con il Gruppo cinese “China Communication Construction Company (CCCC)”, ricordando i risultati ottenuti dalla sua AdSP in tema di riordino della organizzazione portuale.
Non intendo tornare sul dibattito che ha preceduto la visita in Italia del Presidente della Repubblica Popolare Cinese circa il significato da dare alla Via della Seta (un accordo commerciale o una dichiarazione di resa?) – anche perché, ripartito il più o meno gradito ospite, l’attenzione mediatica si è improvvisamente affievolita – quanto piuttosto porre l’attenzione sullo stato di salute dei nostri porti, sul loro livello di competitività rispetto alle esigenze di un mercato dei trasporti marittimi fatto di operatori globali pubblici (per l’appunto i grandi colossi cinesi) o multinazionali private (global carrier) che oggi trasportano buona parte degli scambi commerciali planetari, e con i quali – se si vogliono far funzionare i porti – bisogna confrontarsi.
Da più parti si sollevano perplessità sui problemi relativi alla scarsa dotazione infrastrutturale di cui soffrirebbe il nostro Paese, in pochi invece richiamano la necessità di affrontare il tema del lavoro, che a mio avviso è – e rimarrà in futuro – fondamentale non solo per assicurare efficacia ed efficienza ai servizi erogati dal porto, ma soprattutto per innalzarne la attrattività.
I volumi di traffico complessivo gestiti dal sistema portuale nazionale sono ormai costanti da molti anni, ciò che cambia sono le categorie merceologiche (rinfuse, container, ecc.); l’organizzazione dello spostamento (transhipment/gateway); i livelli di concentrazione nei vari scali nazionali.
Nell’arco di un ventennio abbiamo assistito all’ascesa e al declino del traffico di transhipment; al raddoppio del traffico gateway e a una polarizzazione del traffico nei porti degli archi nord occidentale e orientale (dal 47% del totale nel 2001, al 57% nel 2017).
Questi mutamenti hanno avuto impatti rilevanti dal punto di vista del dock labour.
Molto spesso in proposito si è agitato lo spettro della tecnologia, e in particolare della robotizzazione dei cicli portuali, come una minaccia per la sopravvivenza del contributo del lavoro umano in porto. Tuttavia, il vero pericolo per i dockers non è rappresentato dall’automatizzazione quanto dalla loro potenziale banalizzazione e conseguente marginalizzazione (from port of people to port of things).
Per non essere collocato ai margini, il lavoro deve invece poter crescere in qualificazione e specializzazione occupando così la giusta centralità all’interno del cluster logistico portuale (dockers managers of things).
Si tratta di un problema serio che non riguarda solo il contesto italiano, ma tutta la portualità europea. Ciò che però ci contraddistingue rispetto agli altri paesi è l’eccessiva frammentazione dei nostri porti. Concentrazione dei traffici, economie di scala, efficienza organizzativa e tecnologica limitano la competitività della portualità nazionale, la quale purtroppo non è ancora in grado di agire come un sistema nazionale coeso e coordinato.
A tale proposito la Fondazione Scuola Italiana Logistico Portuale (SILP) aveva accolto con entusiasmo la prescrizione per ciascuna Autorità di Sistema Portuale (AdSP) di redigere un Piano Organico porto, prevista dal cosiddetto “correttivo porti” (DL n. 232 del 2017).
É un documento strategico orientato alla ricognizione e all’analisi dei fabbisogni lavorativi in porto, necessario per destinare le risorse economiche (non marginali) messe a disposizione dalla legge e per garantire l’allineamento degli organici del Porto alle nuove esigenze del mercato (formazione, aggiornamento professionale e ricollocamento).
Era apparso subito chiaro che il proposito del decreto doveva essere completato da un confronto metodologico e operativo tra le AdSP al fine di identificare strumenti di lavoro e approcci condivisi che, ferme restando le specificità di ciascun porto, potessero alla fine consentire di comporre un quadro complessivo degli organici porto del Paese.
È ciò che ha fatto la Fondazione, scegliendo di muoversi in autonomia, e avviando il 26 marzo scorso a Roma un confronto con quanti ritenessero utile discutere di evoluzione tecnologica, delle nuove dinamiche del trasporto marittimo, della crescita delle competenze professionali necessarie per lavorare in porto.
Occorre partire dalle proposte raccolte nel corso di quel seminario per cominciare a individuare delle linee guida comuni su cui poter modellare il Piano Organico Porti e renderlo così davvero efficace. Forse è ancora possibile riprendere il bandolo della matassa ed avviare un percorso comune ampliando la platea degli interessati al tema.