Le navi hanno l’elica ed è la merce a decidere dove andare. Non ci sono barriere che possano fare da argine a questo paradigma, con buona pace di chi sta tentando di alterare gli equilibri di mercato con una politica daziaria aggressiva e autolesionista.
Ma se l’applicazione da parte del presidente americano Donald Trump di ulteriori tariffe (sino al 25%) sul controvalore di circa 200 miliardi di dollari di merce importata dalla Cina rischia di avere come unico effetto quello di danneggiare più che altro le stesse imprese e gli stessi cittadini statunitensi, avendo infatti un impatto piuttosto limitato sul seaborne trade mondiale, la Via della Seta promette invece di rivoluzionare i modelli economici attuali.
900 miliardi di dollari: a tanto ammontano gli investimenti previsti per potenziare una delle varie rotte sull’asse west-east-westbound, ovvero la sesta direttrice oltre alle cinque presenti (Bakal-Amur mainline; trans-siberian railway; trans-manchirian railway; trans-mongolian railway; Asia-European sea route).
Stiamo parlando di un investimento dieci volte superiore a quello che i grandi carrier hanno dovuto sostenere negli ultimi tre anni per ammodernare le proprie flotte (100 miliardi di dollari). Questi numeri danno già un’idea di massima di quale sia l’obiettivo strategico e la portata della Belt and Road Initiative.
Con il 15% del prodotto interno lordo mondiale, ma soprattutto con il 21% della popolazione globale (rispetto al 4,5% degli USA), la Cina ha un serio problema di riequilibrio interno laddove oltre il 65% del PIL nazionale è prodotto dalle province costiere del Sud-Est.
Analogamente, i tassi di sviluppo che hanno caratterizzato l’area dell’Europa orientale comunitaria sono stati pari a più del doppio della media europea negli ultimi 16 anni. In buona sostanza, nella sua essenza politica, la BRI costituisce un’iniziativa geo-economica tesa ad avvicinare l’Ovest della Cina all’Est dell’Europa.
Se proprio vogliamo essere crudi e diretti possiamo dire che lo scopo della BRI è quello di creare una “grande ZES” (Est Europa) al servizio dello sviluppo della manifattura cinese.
Definita in tal modo, la questione potrebbe essere oggetto di strumentalizzazione politica da parte dei soliti “politicanti” che non riescono a distinguere un autocarro da un carro ferroviario ma presumono di impartire lezioni di economia dei trasporti (in Italia ne abbiamo molti).
E invece, la cosiddetta “Infrastrutturazione” della Via della Seta potrebbe essere una straordinaria opportunità per il nostro Paese ed è in tale ottica che devono essere contemplate le nostre “infrastrutture di prossimità” (junctions) quali, una per tutte, la Torino-Lione.
Per produrre si ha bisogno di know-how e l’Italia, pur perdendo pezzi della sua industria, conserva ancora un’enorme knowledge. Abbiamo tante produzioni a valore aggiunto ma ne esportiamo poche in eastbound.
Il valore delle merci in esportazione dai nostri porti è tre volte superiore all’import, giusto l’opposto di quanto accade oggi a Pechino, il cui export (0,5 miliardi di tonnellate) è pari a un quinto dell’import (2,5 miliardi di tonnellate), anche se i due mercati hanno un valore pressoché identico;
Questo dimostra come la Cina abbia oggi bisogno più che mai di vie logistiche efficienti per raggiungere i mercati occidentali. Il carico sceglie infatti la strada più conveniente e breve per giungere all’end user, ed è in tale logica che dobbiamo analizzare la Via della Seta.
Da questo punto di vista, la strategia cinese sembra chiara: utilizzare la BRI a nord per prodotti ad alto valore unitario e concentrarsi sulla parte sud della BRI per i prodotti a basso valore.
Non è un caso se nei giorni scorsi gli investitori cinesi hanno avviato un significativo investimento portuale in Perù, sulla falsa riga di quanto già fatto in Africa Orientale (a Djibouti), nella cui regione è stata avviata un’intensa attività di investimento per acquisire aree destinate allo sfruttamento agricolo (cereali).
Personalmente ritengo che la BRI possa rappresentare per i porti e per i nodi logistici italiani un’interessante opportunità per mettere a frutto le nostre, spesso ahimè inutili, infrastrutture.
Avvicinarsi ai nodi logistici significa per la nostra manifattura individuare nuovi mercati, e cosa non da poco, trasformare il nostro Paese da “barriera” a “bridge”, ovvero “piastra logistica” dal Nord-Africa al “Centro dell’Europa”.