Governance portuale
© Luigi Angelica
Interventi

Per una governance più snella

Autonomia portuale e Regioni

di Giuliano Gallanti

Già Presidente dell’Autorità portuale di Livorno

Negli ultimi tempi si è riacceso il dibattito sulla migliore forma giuridica che devono assumere le autorità portuali. Nel sostenere la tesi della corporativizzazione delle attuali Autorità di Sistema Portuale, molti fanno riferimento allo scalo marittimo di Rotterdam.

Orbene questo è sicuramente quello che più si è spinto sulla strada della privatizzazione ma occorre tener presente che, in ossequio alla tradizione delle città anseatiche, è sempre stato un porto municipale. La sua trasformazione, deliberata dal Comune proprietario al termine di una discussione ampia e a tratti aspra, costituisce finora la soluzione più spinta sulla strada della privatizzazione.

Attualmente dà lavoro a più di un migliaio di persone ed esercita pertanto un peso politico non indifferente. Gode di un’autonomia molto vasta nello svolgimento delle sue attività commerciali così come nell’assegnazione delle concessioni di porto ai terminalisti, mentre lo Stato detiene una capacità di intervento ridotta e di per sé non decisiva. In breve, da loro non esiste il demanio portuale così come lo conosciamo in Italia, con i suoi vincoli e lacci.

Nei primi anni Duemila il porto di Anversa, che era anch’esso municipale, è stato invece costituito in ente separato con un decreto dello Stato. Sul suo stesso sito Internet si definisce adesso un landlord port.

Questo significa che l’Autorità portuale possiede e amministra i siti dell’area portuale, rendendoli utilizzabili alle compagnie per le loro attività sulla base di accordi di concession agreement (soltanto nel 2012 ha assegnato concessioni per oltre 300mila metri quadri).

Potrei attardarmi nella descrizione di altre forme di organizzazione portuale caratterizzate da una forte autonomia gestionale e finanziaria (penso a Barcellona e agli scali inglesi) ma questo non farebbe che accrescere le note dolenti del sistema italiano.

La riforma Delrio si è infatti posta soltanto marginalmente il problema della possibilità di trasformare la governance portuale, ritenendo a torto che il semplice accorpamento di scali marittimi avrebbe trasformato le Autorità portuali in soggetti in grado di competere finalmente con i porti nordici (così come dichiarato dallo stesso ministro in occasione della presentazione del disegno riformatore).

Alla portualità italiana occorre quindi non soltanto una nuova veste giuridica ma, già da oggi, una forte autonomia (per non dire indipendenza) delle autorità portuali rispetto allo Stato.

Il governatore della Liguria Giovanni Toti ha recentemente proposto la creazione di Authority di gestione regionali che non siano più enti pubblici non economici ma Spa a capitale pubblico. Proposta interessante ma che non vorrei si riducesse infine nel sostituire lo Stato con la Regione, con buona pace ancora una volta dell’autonomia portuale.

Quel che più conta infatti è che le Autorità portuali italiane dispongano finalmente di strumenti normativi e gestionali adeguati a sostenere le sfide imposte loro dalla concorrenza internazionale.

Consideriamo ad esempio la questione dell’acquisizione di territori limitrofi da parte delle attuali AdSP. Tutti i maggiori porti europei (Rotterdam, Barcellona, Anversa, Amburgo) stanno cercando nuovi spazi a terra perché gli attuali risultano spesso intasati per effetto dell’aumentata capacità di carico delle megaship.

È di tutta evidenza che un sistema di regole più vicino al modello privatistico consentirebbe alle attuali AdSP di muoversi in maniera efficace e coi tempi opportuni in una partita fondamentale per il loro futuro.

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