Per lunghi anni, a valle della riforma del sistema portuale realizzata con la legge n.84/94, non si è mai giunti alla definizione, pure prevista dal legislatore, dei criteri per la determinazione dei canoni per le concessioni demaniali marittime. Una isteresi temporale così lunga non può essere solo frutto di distrazione.
Vale la pena di interrogarci sulle ragioni che hanno condotto a questo stallo. In linea schematica, possiamo individuarne tre.
Ipotesi numero uno: non era facile giungere tecnicamente a una determinazione dei criteri, e quindi si è preferito lasciare alla autonomia delle singole autorità l’assunzione della responsabilità, decidendo sostanzialmente caso per caso, salvo le eccezioni previste dalle regole stabilite (per esempio le concessioni industriali per la cantieristica, e poi, le concessioni turistico balneari).
Ipotesi numero due: si è deciso di mantenere una flessibilità decisoria, nel dubbio che criteri definiti rigidamente e centralmente potessero alterare una logica adattiva del mercato e dei mutevoli rapporti tra concessionari e concedente.
Ipotesi numero tre: è stato consapevolmente deciso che era meglio dare continuità ai meccanismi precedentemente stabiliti nelle concessioni vigenti, in quanto un intervento avrebbe determinato difficoltà molto rilevanti dal punto di vista della continuità economica e della sostenibilità delle concessioni in essere, oppure di quelle che sarebbero andate in scadenza in tempi brevi rispetto alla entrata in vigore della nuova legge.
La verità è che la regolazione economica delle concessioni demaniali non ha mai appassionato molto gli addetti ai lavori. Larga parte delle discussioni si sono concentrate sulle procedure giuridiche per l’assegnazione delle concessioni stesse.
Questo esito non deve stupire. Nella convenienza di molti c’era tutto l’interesse a lasciare la materia in un cono d’ombra. Gli spazi di negoziazione in assenza di criteri sono maggiori. E gli stessi interessi economici militavano per una cristallizzazione degli assetti esistenti, piuttosto che per una scelta di natura differente. Il che non vuol comunque dire che serva una regolazione costruita come una camicia di forza, tale da irrigidire in modo eccessivo una discussione tra le parti che deve essere sempre basata sulla capacità di adattamento rispetto ai singoli casi ed alle singole realtà portuali.
Eppure, tra il nulla (assenza completa di criteri) e il tutto (regole assolutamente rigide) esistono innumerevoli gradazioni intermedie che possono essere percorse. Ed è solo all’interno di questo spazio che possono essere trovate le soluzioni più corrette per disciplinare tale delicata materia. Non sono mancati i tentativi per giungere al previsto regolamento sulla determinazione dei criteri. Ma, ora per una ragione ora per un’altra, l’appuntamento è sempre stato rimandato. Poi improvvisamente, dopo un quarto di secolo di vuoto di memoria collettiva, sono apparsi non uno ma addirittura due provvedimenti sulla materia.
Prima è intervenuto il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT) con la cosiddetta direttiva sulle concessioni del 5 febbraio 2018; quindi l’Autorità di Regolazione dei Trasporti (ART) con la delibera n. 57/2018 del 30 maggio 2018. Si potrebbe esprimere soddisfazione per questo opportuno risveglio da un lungo letargo. Ma non è così. I due documenti esprimono indirizzi non convergenti e mettono in difficoltà chi deve assumere una decisione nella necessità di trovare una tortuosa chiave interpretativa tra due assetti di regolazione le cui finalità non sono coincidenti. Proviamo a spiegare perché.
Il decreto direttoriale del MIT, che richiama un recente parere in tal senso della Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (S2809/2017), individua «criteri oggettivi, adeguati e puntuali che devono essere portati a conoscenza degli interessati prima della presentazione della domanda tecnica progettuale di cui all’articolo 18 della legge n. 84/1994 e sulla cui base espletare l’istruttoria delle istanze concorrenti».
Tra questi trovano spazio la capacità di assicurare le più ampie condizioni di accesso ai terminal; la natura e rilevanza degli investimenti infrastrutturali e sovrastrutturali; la tutela dell’ambiente e della sicurezza, sia in termini di safety che di security e il grado di coerenza con le indicazioni del piano strategico nazionale della portualità e della logistica e degli altri strumenti di pianificazione nazionale vigenti nel settore;
I criteri individuati dal MIT corrispondono a obiettivi di politica generale, incardinati soprattutto nella corretta ricerca di coerenza tra indirizzi di pianificazione nazionale, sviluppo degli investimenti e della occupazione, robustezza e solidità del soggetto al quale viene assegnata la concessione. Va detto inoltre che l’impostazione del decreto direttoriale parte dal presupposto che sia il soggetto privato ad attivare la domanda di concessione, in quanto si riferisce esclusivamente alla domanda tecnico progettuale di cui all’articolo 18 della legge n. 84/1994. Non si fa riferimento a procedure competitive tra diversi soggetti economici, che si possono manifestare mediante ruolo di promotore della competizione da parte del soggetto che gestisce il demanio marittimo.
Diverso, completamente diverso, è invece l’approccio della delibera ART n. 57/2018 dell’ART, nel quale vengono innanzitutto escluse (e non se ne comprende bene la ragione) le concessioni di realizzazione e gestione di opere infrastrutturali. Il suo testo sottolinea inoltre che le procedure di selezione pubblica sono avviate d’ufficio o su istanza di parte, quindi ricordando che anche il soggetto gestore del demanio marittimo può attivare una procedura di selezione competitiva senza attendere la manifestazione di un interesse da parte di un privato.
Secondo l’ART i canoni concessori si devono comporre di una componente fissa e di una componente variabile. La parte fissa è proporzionale alla estensione delle aree e tiene conto della ubicazione, dello stato e del livello delle infrastrutture, con la possibilità di rivedere tale parte qualora dovesse mutare lo stato delle infrastrutture. La parte variabile dovrebbe invece essere determinata in base a meccanismi incentivanti volti a perseguire una migliore efficienza produttiva.
L’Autorità sottolinea poi la necessità di vigilare sull’applicazione delle tariffe per le operazioni e i servizi portuali, particolarmente per quelli che richiedono l’utilizzo di infrastrutture definite essenziali, per le quali siano state verificate cumulativamente le condizioni di condivisibilità, non sostituibilità, non duplicabilità a costi socialmente sostenibili. Il riferimento dovrebbe riguardare in particolare i servizi di pilotaggio, ormeggio e rimorchio: fattori che possono incidere sulla competitività dell’intero ciclo di operazioni portuali.
L’ART sottolinea infine la necessità di una contabilità regolatoria che consenta di rendere trasparenti i meccanismi per la determinazione dei canoni e delle tariffe. Quest’ultima affermazione è particolarmente rilevante per quanto riguarda le tariffe applicate per le attività che si svolgono in regime di monopolio, e quindi per tutte le attività correlate ai servizi tecnico-nautici. L’argomento assume particolare rilievo, perché nei prossimi anni sono previste una serie di gare per l’assegnazione di tali servizi.
L’approccio seguito da ART non si riferisce (come invece accade nel caso del decreto direttorio del MIT) ad alcun obiettivo di politica economica generale ma introduce riferimenti di economicità e di redditività specifica, più di carattere strettamente funzionale alla efficienza.
Conciliare queste due visioni non sarà compito facile per le Autorità di Sistema Portuale (AdSP), soprattutto perché nel recente passato si è innescata una polemica sui ruoli dell’ART. Secondo il MIT, almeno sinora, non esiste infatti uno spazio per una competenza regolatoria da parte dell’Autorità indipendente, in quanto è lo stesso Ministero a indirizzare e controllare le Autorità di Sistema Portuale. Di avviso radicalmente opposto è l’ART, che richiama i poteri conferiti con la legge istitutiva dell’autorità di regolazione. Tra Scilla e Cariddi ci sarà di mezzo la necessità di assumere decisioni, navigando in un mare incerto.
Cercare una sintesi tra i due indirizzi espressi da MIT ed ART nelle due recenti delibere potrebbe essere possibile a condizione che vengano assunti a riferimento per la determinazione dei canoni criteri che mettano assieme da un lato obiettivi di politica economica generale e dall’altro obiettivi di adeguato reddito per il proprietario pubblico, uniti a coefficienti correttivi per stimolare l’efficienza dei concessionari.
Certo, occorre evitare che si generino regole troppo complesse ed ingessanti, in quanto va anche preservata la possibilità di valutare flessibilmente i singoli progetti industriali, evitando che gli automatismi dei criteri non consentano di valorizzare le specificità delle specifiche iniziative.