Trascrizione dell’intervento pronunciato nel corso della Giornata internazionale di studi “L’ammiraglio Napoleone”, tenutasi il 20 marzo 2015 a Livorno nell’Auditorium della Camera di Commercio
Il simbolo del porto di Livorno nelle vedute e nelle monete di età medicea è la torre del Fanale. La sua luce, già nel Medioevo, tenuta viva da monaci eremiti come gli agostiniani, guidava i naviganti verso l’imboccatura del porto ma la sua funzione non si limitava a segnalarne la presenza.
La relazione anonima di un funzionario del Settecento sottolinea l’importanza di questa grande struttura per il funzionamento del porto anche durante il giorno. Il custode «salendo 211 scalini raggiungeva la lanterna, le cui 32 lampade erano accese ogni sera». Egli però era obbligato a stare nella lanterna quasi tutto il giorno, specialmente «quando è vento per osservare con il cannocchiale se scopre bastimenti». In quel caso doveva mettere un segnale dalla parte da cui proveniva il bastimento e se si presentava un bastimento il cui capitano non fosse pratico come mostrava «con lo sparare un colpo di cannone, la sanità gli spediva un pilota per condurlo dentro».
La presenza del fanale, già attestata nel Trecento, è certo una indicazione forte dell’importanza del porticciolo di Livorno nel sistema di porto pisano e giustifica l’interesse di Firenze per questo scalo. Il mare è infatti l’obiettivo a lungo perseguito dalla politica espansionistica di Firenze: alla conquista di Pisa nel 1406 seguì l’acquisto di Livorno dai genovesi per 100.000 fiorini nel 1421.
Il potenziamento del porto con la costruzione della torre del Marzocco e nel 1518-37 la costruzione della Fortezza (poi Fortezza Vecchia) a guardia del porticciolo naturale sono le prime tappe dell’intervento diretto dello Stato fiorentino, indicative di un interesse che si snoda per alcuni secoli. Nel corso della seconda metà del Cinquecento, a causa dell’insabbiamento di Porto Pisano, il porticciolo naturale di Livorno diventa sempre più importante.
Nel 1571 arrivano a Livorno le prime navi inglesi comprate da mercanti fiorentini per trasportare piombo e pannine d’Inghilterra. Il Canale dei Navicelli – realizzato tra il 1565 e il 1574 per collegare il porto con Pisa e, tramite l’Arno, con Firenze – rappresentò un elemento fondamentale del sistema infrastrutturale toscano e si configurò come uno strumento di unificazione territoriale e amministrativa del Granducato. Questa via d’acqua rispondeva ancora alla logica del collegamento che aveva caratterizzato Porto Pisano fra città emporio con un porto fluviale in collegamento con lo scalo marittimo e il mare; la vera novità, che anticipa di molti anni la fondazione di città portuali, fu la decisione di fondare una città-fortezza per 12.000 abitanti sul mare.
Nel 1573 il granduca aveva avviato contatti segreti con Costantinopoli per «ottenere il commercio di Levante per la nazione fiorentina». Il fallimento di questi sforzi diplomatici condusse alla decisione di ingrandire Livorno in funzione del porto e nel 1575 Francesco I diede incarico all’architetto granducale Bernardo Buontalenti di «far disegno della nuova fortificazione».
Nel 1576 si procede alla misurazione e all’esproprio di tutti i terreni sui quali doveva fondarsi il circuito bastionato e dei terreni inclusi in esso con l’evidente intenzione di governare l’intero progetto, di pianificarne e controllarne lo sviluppo, le caratteristiche formali e istituzionali. In sostanza si pensa a Livorno come a una importante base commerciale nel Mediterraneo. Questo è il disegno che sembra emergere dal “Ragionamento, di Filippo Sassetti, sopra il commercio ordinato dal granduca tra i suoi sudditi e la nazione del Levante” del 1577.
Per attirare i mercanti levantini, turchi ed ebrei, Sassetti propone che a Livorno si organizzi un porto come quello funzionante ad Anversa, fornito di ogni tipo di merci e di strutture, abitazioni e magazzini a servizio dei mercanti e prospetta la possibilità di offrire facilitazioni doganali, affinché i mercanti vi trovino non soltanto da vendere ma anche da acquistare il carico di ritorno.
La prima pietra della nuova città fu posta il 28 marzo 1577 e in un breve giro di anni fu terminata la poderosa citta bastionata. La costruzione della città ebbe nuovo impulso da Ferdinando I, considerato il vero padre della città nuova. Il processo di urbanizzazione all’interno della cinta fortificata, favorito da ingenti investimenti statali o di enti controllati dal granduca, fu accompagnato da una sistematica politica popolazionistica tesa ad attirare con agevolazioni economiche artigiani e manodopera specializzata e a favorire con protezioni e guarentigie l’insediamento di mercanti di ogni provenienza.
Il primo bando del gennaio 1590 fu rivolto ai greci, esperti marinai e calafati; il secondo, dell’ottobre successivo, agli artigiani forestieri: manifattori di sartie, calafati, maestri d’ascia, legnaioli, muratori, fabbri, scalpellini, pescatori, marinai «e ogni mestiere manuale fuori che braccianti e vangatori». Il terzo, del 10 luglio 1591 e ampliato nel 1593, è l’invito rivolto a tutti i mercanti ponentini e levantini: concedeva loro privilegi economici, agevolazioni doganali e – importantissimo – la protezione dall’Inquisizione. Il privilegio, che per il ruolo avuto nell’insediamento degli ebrei e degli stranieri nella città fu conosciuto con il nome di Livornina, richiamò i mercanti di professione religiosa non cattolica, assicurando per secoli l’insediamento a Livorno degli ebrei, degli armeni, dei nordici di fede protestante (olandesi, inglesi, tedeschi).
Nel 1591 il granduca fece scavare dagli schiavi in pochissimi giorni una seconda darsena contigua a quella naturale esistente e rese più luminoso l’antico fanale acquistando vetri a Venezia. Durante gli anni della grande carestia del 1590-92, grazie all’approvvigionamento di grani effettuato da mercanti fiorentini ed ebrei inviati nel Nord, Livorno divenne – secondo la celebre definizione di Fernand Braudel – il «Porto dei grani».
Ferdinando I riprese anche il progetto del padre Cosimo I, che aveva ordinato già nel 1573 al suo architetto Bartolomeo Ammannanti di progettare e costruire un grande molo che potesse potenziare la piccola darsena di Livorno e offrire ricovero alle galere e alle navi mercantili. Un lavoro ciclopico che fu ben presto interrotto. Ferdinando I fece costruire due moli: il primo muoveva da terra e si raccordava col Fanale, il secondo dal Fanale puntava verso nord. L’opera, denominata Braccio Ferdinando, è ben visibile nell’affresco di Bernardino Poccetti nella sala di Bona di palazzo Pitti a Firenze.
Alla morte di questo granduca l’opera restò incompiuta: i moli non ancora consolidati e sprovvisti di banchine per l’attracco lasciavano le navi esposte ai venti di maree di terra, mentre la posizione del secondo molo intercettava l’afflusso delle alghe che tendevano ad ammassarsi nel grande bacino, e per questo fu abbandonata. Nel 1611 si dette principio alla fondazione di un nuovo molo, che chiudeva un’area meno vasta (oggi Molo Mediceo), e quando fu terminato nel 1621 il porto divenne molto più capiente e molto più sicuro.
Il Molo, sebbene con dimensioni ridotte, attuò finalmente il sogno di dotare il Granducato di un capace bacino artificiale ma il grande braccio, che si protendeva a chiudere uno specchio di mare al di là delle darsene, spostava verso sud l’area da difendere e rendeva di fatto sovradimensionata la Fortezza Nuova. Si cominciò così a esaminare progetti per costruire un nuovo quartiere strappando nuovi terreni al mare.
La rapida crescita della popolazione (dagli iniziali 500 abitanti del 1590 ai 1250 del 1640), superando le previsioni dei suoi ideatori, dimostrava che già dopo cinquant’anni l’area urbana e la tipologia architettonica del primo impianto erano insufficienti e imposero vasti interventi per adeguare le infrastrutture portuali e abitative allo sviluppo dei traffici mercantili e alle necessità di immagazzinamento delle merci.
Di pari passo vennero create e potenziate le strutture amministrative, quelle doganali e quelle sanitarie con la costruzione di nuovi lazzaretti per la quarantena delle merci provenienti da zone infette.
Il funzionario centrale per la gestione del porto era il Capitano del porto, una carica istituita nel 1859 che divenne sempre più importante. Egli aveva il compito di disciplinare gli ormeggi, sorvegliare l’opera dei cavafango per rendere più profondo il pescaggio del porto, sorvegliare le operazioni di travaso delle zavorre e di risarcimento dei vascelli ma aveva soprattutto il compito di stabilire e riscuotere la tassa di ancoraggio, controllare le patenti di sanità per trasmettere informazioni al Provveditore di dogana e all’Ufficio di sanità.
Altra struttura fondamentale per il funzionamento del porto era la dogana. Il Provveditore di dogana dal 1602 aveva anche autorità sopra la nuova compagnia dei facchini, un corpo quasi “monacale” di uomini che provenivano dalla Valtellina e dalla Bergamasca e avevano il compito di scaricare, pesare e immagazzinare le merci in transito da Livorno.
La funzione più delicata esercitata dal Provveditore di dogana era mantenere il difficile equilibrio tra leggi e privilegi per garantire le libertà del porto franco tenendo conto, come scriveva nel 1645 il provveditore Attavanti, che «la consuetudine è stata sempre che fino i turchi nostri nemici hanno goduto e tuttora godono la franchigia del porto e possono venire e negoziare godendo i benefici e le franchigie, massime i forestieri e quelli che portano robe dai paesi lontani». Era quindi necessario che il Provveditore di dogana “accarezzasse” capitani e mercanti stranieri per rendere sempre più appetibile lo scalo di Livorno.
Nella città multietnica si poteva comprare di tutto e tutti i gusti erano accarezzati: fu aperta una fabbrica di birra affinché gli inglesi potessero trovare la loro bevanda preferita, ebrei e arabi si rifornivano di carne dal macellaio kosher, pasticcerie francesi erano frequentate non solo dai francesi e infine a metà del Seicento l’armeno Antonio Bogos aprì un bagno turco. Tutta la città pullulava di rivenditori di ogni genere. Livorno divenne porto di arrivo e di smistamento di generi alimentari provenienti dal nuovo mondo (zucchero, baccalà, aringhe, caffè, tabacco), il cui consumo si diffuse via mare e via terra da Livorno in tutta Italia.
A metà del Seicento la crescita esponenziale degli arrivi dei bastimenti e delle merci rese necessaria la costruzione di una nuova dogana. Fu dunque abbandonato il piccolo edificio situato nei pressi del porto e fu costruito un nuovo imponente edificio sul porticciolo. Qui la dogana poteva contare su 22 funzionari oltre a un numero maggiore di ufficiali, guardie, veditori e assistenti nonché su un tesoriere e un sotto provveditore. La compagnia dei facchini raggiunse il numero di cinquanta soci, senza contare i cosiddetti “monelli” avventizi sulle banchine alle dipendenze dei facchini privilegiati.
Nonostante la presenza di un maggior numero di guardie e personale, restava molto problematico il controllo delle frodi: sfruttando le norme del «beneficio libero», secondo le quali si potevano immagazzinare i beni di Livorno per due anni senza pagamento delle gabelle, diventava molto difficile controllare i materiali che entravano o uscivano da Livorno. Anche se la maggior parte della normativa era finalizzata a prevenire le frodi, il contrabbando era così molto diffuso e difficile da combattere.
Con la riforma del 1676 venne ufficialmente istituito il porto di deposito. Cosimo III conformò la legislazione doganale alle richieste dei grandi mercanti internazionali: confermò tutti i vantaggi che derivavano dall’essere Livorno un porto franco e vi aggiunse una normativa a sostegno del porto di deposito. L’editto stabilisce infatti che le merci introdotte a Livorno – una volta pagato il diritto di stallaggio – potessero essere vendute e riesportate senza altri controlli doganali.
La risoluzione legislativa fu connessa alla costruzione di un sistema di fortificazioni più moderne, al ridimensionamento della Fortezza Nuova e alla costruzione su quest’area del nuovo quartiere detto della Venezia Nuova, che divenne centro della residenza mercantile più qualificata. I fossi militari furono trasformati in vie d’acqua forniti di approdi per facilitare il carico e lo scarico delle merci nei grandi magazzini costruiti a livello dei fossi e al livello superiore della strada.
Questa fase fu particolarmente complessa: si innescò infatti sul trasferimento dell’ingresso del fosso dei Navicelli nel fosso circondario dove fu edificata la dogana, rendendo in tal modo l’intera città area del porto franco. Livorno divenne così un grande emporio nel quale confluiva ogni genere merceologico, che dai magazzini dei mercanti – in confezioni nella quantità concertata coi sensali – veniva spedito via mare e via terra in Italia, in Europa e nel Mediterraneo.
Nel Mediterraneo percorso dalle flotte delle potenze europee in guerra per garantire la piena funzionalità del porto franco, aperto ai commerci e alle navi di tutte le provenienze, il Granducato di Toscana si impegnò a livello locale e internazionale per garantire la neutralità del porto.
Insieme all’azione diplomatica presso le corti europee per ottenere il riconoscimento della neutralità, prima concordata di volta in volta con i consoli, fu dato principio a un grande piano di ammodernamento delle fortificazioni a mare secondo i dettami di Vauban definendo un piano di fortificazioni che potevano garantire l’intero specchio di mare su cui si ancoravano i vascelli alla fonda. L’importanza del porto ebbe il suo pieno riconoscimento nel 1692, quando con la pace di Augusta venne riconosciuta la neutralità del porto e dei suoi scambi commerciali.
Nel corso del Settecento si passò dalla neutralità del porto a quella dello Stato toscano. Dichiarata da Ferdinando III, quest’ultima era però assai traballante poiché Napoleone mal sopportava la presenza della nazione inglese e i suoi commerci nel porto di Livorno. Occuparlo significava privare gli inglesi di uno sbocco importante per i loro prodotti e una minaccia per la presenza francese nel Mediterraneo, preludio alla conquista della Corsica caduta in mani britanniche nel giugno del 1796.
Con la pace di Lunéville del 1801 e l’istituzione del Regno di Etruria, Napoleone sperò di ottenere il pieno controllo del porto di Livorno. In realtà il governatore di Portoferraio Carlo De Fisson si rifiutò di riconoscere i dettati di Lunéville in quanto non sottoscritti dal granduca. Portoferraio, che controllava il canale di Piombino, divenne così il rifugio di immigrati e la piazza di tanti negozianti di Livorno, che ammassarono notevoli fortune all’ombra di intensi contrabbandi di merci inglesi e americane.
Il tentativo di far rispettare il blocco continentale condusse all’inclusione della Toscana nell’Impero. Il decreto napoleonico del 22 ottobre 1808 permise l’introduzione via mare a Livorno di merci proibite purché non provenissero da fabbriche, colonie o dal commercio inglese. Questo decreto permetteva che le merci importate dall’Impero potessero essere depositate nei magazzini dei negozianti, che potevano riesportarle via mare o via terra. La città, all’interno delle sue mura, restava di fatto un porto franco e la proibizione di importare merci e prodotti inglesi era aggirata con falsi certificati d’origine. L’estensione della zona franca che coincideva con l’intera città e i suoi 40mila abitanti creò una situazione di oggettiva difficoltà di controllo e in pratica non interruppe i traffici del porto.
Solo con il decreto del 23 settembre 1810 – entrato in vigore alla mezzanotte tra il 10 e l’11 febbraio 1811 – fu eliminato il porto franco di Livorno e venne creata una zona franca molto limitata. In previsione di tale inasprimento, i negozianti della città cominciarono a svuotare i loro magazzini ed ebbe inizio il fenomeno della filtrazione. Il profitto che derivava dal frodare i dazi era così allettante che nella filtrazione vennero coinvolte diverse migliaia di persone. Se fino al 1810 caffè e zucchero si pagavano 150 o 100 franchi al quintale, dopo la tariffa di Trianon i dazi per questi beni passarono a 400 franchi al quintale.
La polizia sosteneva che nell’estate del 1810 venivano sorprese ogni giorno con merci di contrabbando da 1.200 a 1.500 persone. Il fenomeno interessò non soltanto i più poveri ma una larga fascia di popolazione in cerca di un reddito integrativo. Furono sorpresi, per esempio, con mussoline e altre merci il prete che accompagnava il feretro di un funerale, una donna che si fingeva incinta, conduttori di carrozze e carri, per non parlare dei doganieri corrotti. I controlli alle porte per impedire la fronde della filtrazione provocarono conflitti e attriti tra le autorità e la popolazione, che non era abituata al controllo delle porte della città.
La storiografia convalida le testimonianze dei contemporanei e sottolinea la fase di grave declino dei traffici e di stasi economica della città. J.P. Filippini scrive che a causa del blocco continentale «a stento si poteva riconoscere il grande emporio del Mediterraneo, il bacino del porto sgombro di bastimenti, la popolazione diminuita». Aggiunge che pertanto «si può solo tentare di dare un’immagine più sfumata della dominazione francese» poiché il fenomeno della filtrazione fu uno dei modi con cui i negozianti e la popolazione di Livorno tentarono di difendersi dalla crisi dei commerci imposta dal blocco continentale.