Nei giorni scorsi il presidente americano Donald Trump ha annunciato, nel suo liberation day, l’inizio della guerra commerciale contro il mondo (leggi qui l’articolo riassuntivo). La nuova politica daziaria prevede l’imposizione di un 10% minimo su tutte le importazioni negli USA. E percentuali ben maggiori per tutte le merci che arrivano da un gran numero di Paesi, a cominciare dall’Europa, che è stata colpita con un dazio del 20%.
Quali saranno le ricadute negative per il Made in Italy? Quali contromisure dovranno prendere le imprese nazionali per salvarsi dalla trade war 2.0? E come intende muoversi l’Unione Europea? Facciamo il punto della situazione con l’avvocato Sara Armella, direttore scientifico di ARcom Formazione e tra i maggiori esperti europei in materia doganale in Italia.
Avvocato, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dato l’ennesimo scossone al commercio internazionale, annunciando quali saranno i Paesi e i prodotti che verranno colpiti dai cosiddetti dazi reciproci, cosa significa per le imprese italiane?
I nuovi dazi varati dal Presidente Trump colpiranno quasi tutte le esportazioni italiane. A partire dal 9 aprile, il Made in Italy sconterà un dazio del 20%. Questo significa che le nostre imprese hanno davvero poco tempo per prepararsi ai maggiori costi e adottare una serie di precauzioni.
Quali contromisure può prendere una PMI per proteggere la propria attività dalla nuova scure daziaria?
In primo luogo, occorre conoscere il proprio prodotto e verificare se sia colpito dai dazi annunciati. Esiste un elenco di prodotti che sono esentati dalle nuove misure, come rame, prodotti chimici e farmaceutici, il legno e i semi conduttori. Tuttavia, non è semplice identificare quali siano i beni soggetti alle nuove tariffe. Individuare la corretta classificazione dei prodotti esportati, potrebbe confermare se la merce oggetto di esportazione è soggetta o meno ai nuovi dazi. È bene inoltre restare aggiornati sulle decisioni del Dipartimento del commercio USA ossia l’ente che è incaricato di applicare queste misure tariffarie.
Occorre poi svolgere una due diligence sui contratti con i propri clienti e verificare se l’impresa abbia assunto l’impegno a sopportare i dazi alle frontiere USA. Quest’onere, ad esempio, è previsto nel caso sia stata concordata una clausola Incoterms DDP. Se così fosse, l’attenzione va spostata sulle condizioni per esercitare il recesso contrattuale per eccessiva onerosità sopravvenuta, altrimenti l’azienda dovrà farsi carico del relativo pagamento.
E l’Unione europea? Come intende reagire?
Le istituzioni dell’Unione europea si stanno muovendo su più fronti. Da un lato prosegue lo sforzo diplomatico per evitare un’escalation della guerra commerciale, dell’altro è in corso la valutazione di quali contromisure mettere in campo. Una di queste è lo strumento anticoercizione, pensato per situazioni in cui paesi terzi minacciano la sovranità dell’Unione con misure che incidono sul commercio o sugli investimenti internazionali.
La Commissione europea ha elaborato un pacchetto di nuovi dazi per un valore complessivo di 26 miliardi di euro, destinati a gravare su prodotti simbolo di Stati repubblicani, come i jeans Levis, il bourbon whisky, il burro di arachidi, i succhi di frutta. Sono tuttavia in corso delle trattative per evitare che le produzioni europee subiscano l’imposizione di ulteriori dazi di risposta da parte degli USA. È già stato annunciato che se l’UE onerasse il bourbon con tariffe maggiori, gli Stati Uniti risponderebbero con un dazio del 200% sul vino europeo.
Al tempo stesso, l’Unione continua a tessere una rete di rapporti internazionali anche tramite la conclusione di accordi di libero scambio utili ad aprire nuovi sbocchi per l’export europeo. Un’impresa italiana votata all’esportazione potrà sfruttare questi accordi e individuare nuovi mercati di destinazione dei proprio prodotti. Gli Stati Uniti sono la principale destinazione delle nostre esportazioni, ma guardare a nuovi paesi può essere una soluzione.
È possibile per un’azienda continuare a vendere negli Stati Uniti ma da un’altra parte?
Delocalizzare la produzione è un’operazione complessa e costosa. Richiede la conoscenza del mercato in cui ci si vuole insediare e delle regole che governo il paese. Utilizzare un altro luogo per far semplicemente transitare le merci non è una soluzione. Occorre che nel luogo di spedizione delle merci sia stata effettuata una lavorazione sufficiente a attribuirne un’origine diversa, altrimenti il prodotto è e resta di origine italiana.