Trade war. Atto secondo. L’esito delle recenti elezioni americane segna una nuova fase per la guerra commerciale avviata già nel 2018 con la decisione del presidente Trump di imporre 50 miliardi di dollari di dazi doganali sui prodotti cinesi ai sensi dell’articolo 301 degli Stati Uniti, il Trade Act del 1974.
I nuovi dazi Usa del 10% sui prodotti cinesi sono entrati in vigore ieri alle 6 ora italiana e minacciano di lasciare il segno. Anche perché questa volta il Tycoon ha deciso di prendere di mira la popolare scappatoia commerciale del de minimis, utilizzata ampiamente dai grandi colossi dell’e-commerce cinese (tra tutti, Temu e Shein) per aggirare le tariffe doganali. Secondo un rapporto del Congressional Research Service, le esportazioni cinesi di pacchi singoli di basso valore [de minimis cargoes] verso gli USA sono salite alle stelle negli ultimi anni, passando da 5,3 miliardi di dollari nel 2013 a 66 miliardi di dollari nel 2023.
Una disposizione negli ordini esecutivi sulle tariffe disposta dal US Customs and Border Protection elimina ora il cavillo che consente agli esportatori di spedire pacchi di valore sotto gli 800 dollari negli Stati Uniti in regime di esenzione doganale.
La risposta di Pechino non si è fatta attendere. E il presidente Xi Jinping ha annunciato a sua volta da lunedì l’introduzione di dazi del 15% sulle importazioni di carbone e gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti e del 10% sulle importazioni di petrolio greggio, macchine agricole, veicoli di grandi dimensioni e pick-up.
Gli analisti ritengono che si tratti di misure leggere, anche perché prendono di mira soltanto 20 miliardi di dollari di scambi commerciali rispetto ai 450 miliardi di dollari previsti dagli Stati Uniti.
Che cosa accadrà ora?
Di sicuro c’è che la Cina rimane ad oggi uno dei più importanti partner commerciali degli USA; nel 2024 ha rappresentato il 41% del totale delle importazioni containerizzate, e i volumi totali di container provenienti dall’impero del Dragone risultano essere in crescita del 6,6% dal 2017. Per dare una misura dell’importanza di questi volumi, basti dire che le importazioni messicane rappresentano soltanto lo 0,5% del totale dei container spediti lo scorso anno attraverso i porti statunitensi, mentre le importazioni canadesi su navi portacontainer sono del tutto trascurabili.
Linerlytica mette in evidenza un altro dato non secondario: nel 2024 le importazioni di container carichi negli USA hanno superato le esportazioni di 2,4 volte, a riprova del fatto che le tariffe sulle importazioni cinesi imposte a partire dal 2018 non sono state in grado di ridurre lo squilibrio commerciale di Washington. “Le importazioni totali di carichi sono cresciute del 24% tra il 2017 e il 2024, mentre le esportazioni di carichi sono diminuite dell’8% nello stesso periodo, determinando un aumento del 54% del numero di container vuoti riposizionati fuori dagli Stati Uniti” sottolinea la consultancy firm britannica.
Secondo gli esperti, la nuova situazione commerciale avrà delle ripercussioni immediate sui flussi di merce spediti via mare lungo le rotte tra il Far East e le due coste degli USA, ma è altresì possibile che i mercati trovino presto la loro strada per tornare a svilupparsi.
Durante la trade war 1.0 le politiche di decoupling messe in atto dagli Stati Uniti nel quadro di una escalation dei rapporti con la Cina hanno alterato in modo significativo le dinamiche commerciali nel trasporto marittimo containerizzato, tanto da rendere strategico il Messico, diventato nel tempo non soltanto il principale beneficiario del nearshoring statunitense, ma anche uno dei partner commerciali più importanti della stessa Cina.
Oggi è probabile vengano esplorate altre opzioni, soprattutto alla luce dei possibili nuovi dazi (nell’ordine del 25%) annunciati, e per ora sospesi, da Trump nei confronti del Messico e del Canada. Il Vietnam e l’India, ad esempio, potrebbero sfruttare il nuovo antagonismo sino-americano per diventare delle importanti teste di ponte nei trade flows da e verso gli Stati Uniti.
“Va notato che generalmente è più facile spostare la destinazione dell’importazione che cambiare l’origine dell’esportazione. L’importazione in Messico per il successivo trasporto negli Stati Uniti ha aggiunto complessità alle catene di approvvigionamento, ma impallidisce in confronto allo sconvolgimento causato dallo spostamento delle esportazioni dalla Cina e dallo smantellamento di assetti produttivi consolidati” afferma il ceo di Xeneta Peter Sand.
“Negli ultimi anni sono aumentati i container esportati dall’India, molto probabilmente a scapito della Cina, mentre anche i paesi vicini del Sud-est asiatico come il Vietnam stanno diventando sempre più importanti. Nel 2020 i volumi dal subcontinente indiano alla costa orientale degli Stati Uniti sono aumentati del 14,5% su base annua. Già da tempo le aziende stanno cercando di evitare i dazi spedendo merci dalla Cina a una nazione come il Vietnam per riconfezionarle/riutilizzarle prima del successivo trasporto negli Stati Uniti. L’ulteriore aumento dei dazi potrebbe accelerare questo processo” aggiunge.
“La situazione internazionale è estremamente complessa” afferma a Port News Giorgio Poggio, amministratore delegato della casa di spedizioni Aprile UK e direttore generale del Comitato Esecutivo della Camera di Commercio Italiana nel Regno Unito (ICCIUK). “L’introduzione dei dazi commerciali sulle importazioni cinesi avrà sicuramente come effetto quello di riorientare molti prodotti verso il mercato europeo. Potrebbero quindi esserci delle opportunità di crescita per l’UE nella misura in cui la politica daziaria vada a modificare le abitudini dei consumatori” sottolinea.
“E’ chiaro infatti che l’aumento dei costi è una leva importante per definire una scelta di consumo di beni e servizi. Se il prodotto cinese, acquistato fino a pochi mesi fa a prezzi bassi, diventasse meno conveniente, il consumatore potrebbe rivedere le proprie strategie e preferire a questo punto i prodotti made in Europa”.
Le incognite rimangono però consistenti. “Ad oggi non è dato sapere se il tycoon prenderà realmente in considerazione l’idea di imporre una tariffa del 10% su tutte le importazioni Ue. La mossa potrebbe avere chiare ripercussioni sui nostri mercati; non dimentichiamo che le relazioni tra gli USA e il vecchio Continente valgono cento miliardi di euro di beni e servizi all’anni. A livello europeo abbiamo verso gli USA una eccedenza di beni per un controvalore di 156 miliardi di euro, mentre nei servizi abbiamo un deficit di 154 mld di euro. Siamo sostanzialmente in linea”.
Un aumento generalizzato dei dazi andrebbe a colpire sicuramente la Germania, il paese che ha il surplus commerciale più elevato verso gli USA. Da analizzare invece la posizione della Gran Bretagna, che potrebbe essere risparmiata dalla gigliottina daziaria di Trump: “Si tratterebbe di una mossa chiaramente politica – spiega ancora Poggio – servirebbe a smorzare l’entusiasmo filo-europeista del primo ministro britannico Keir Starmer, e ad aprire le porte di Downing Street a Neil Farage, sponsorizzato da Elon Musk”.
Ma in fondo l’obiettivo di Trump è soltanto uno: “E’ quello di trasferire una parte della produzione di beni dalla Cina negli USA: l’aumento della produzione per il mercato interno fa parte del programma dell’attuale amministrazione americana. L’America prima di tutto: noto che lo slogan sta diventando piano piano realtà” conclude Poggio.