Gli economisti dei trasporti lo chiamano decoupling. Ed è quel fenomeno, tutto italiano, del disallineamento della logistica dall’andamento dell’economia reale. Un fenomeno cui occorre prestare attenzione, perché la situazione rischia di diventare insostenibile.
A lanciare l’allarme è Ivano Russo. Dal Palazzo del Portuale di Livorno, dove è stato organizzato un convegno sul tema del lavoro portuale, il direttore generale di Confetra invita le Istituzioni, ma non solo, a disincagliarsi dalla “dittatura” dei volumi.
«I volumi – dice – non generano sempre e comunque ricchezza. Ce ne dobbiamo rendere conto. Se imbarco produzione manifatturiera cinese, la trasporto su una nave e la sbarco in un porto italiano e da lì la carico su un treno verso la Baviera, non creo ricchezza ma delle diseconomie che impattano in termini di costi di manutenzione e gestione delle infrastrutture, in termini di congestionamento stradale e portuale. Se diventiamo un nastro trasportatore saremo strumentali alla ricchezza altrui, non alla nostra».
La constatazione di Russo è questa: «Dal 2008 al 2019 il PIL è cresciuto in media dello 0,2, la logistica ed i trasporti dell’8%. Il rapporto storico da 1 a 3 è divenuto 1 a 40».
Questo significa soltanto una cosa, «che l’andamento dei trasporti ha divorziato dall’economia reale, cioè da ricchezza diffusa, lavoro, reddito, profitto per le imprese».
Eccolo il disallineamento. Russo ricorda come nel 2017 i porti italiani abbiano registrato movimentazioni da record, 491 milioni di tonnellate. Il solo porto di Genova è cresciuto del 15% nel segmento contenitori, contribuendo però per appena + 0,1% al PIL regionale. Che nel 2016 e nel 2017 aveva fatto registrare rispettivamente una crescita del + 1 e + 1,1%.
Il 2017 è stato anche l’anno di gravi crisi occupazionali in ambito portuale, nonostante i volumi da record. «Abbiamo avuto 1200 cassa integrati nei tre principali porti di pure transhipment: Gioia Tauro, Cagliari e Taranto. I lavoratori portuali avevano tavoli di crisi con le AdSP e con il MIT da Palermo a Genova, passando da Napoli e Livorno».
Era il segnale che stava accadendo qualcosa. E cioè «che la logistica ha progressivamente smesso di generare vera ricchezza per il territorio. Vale per i lavoratori come per le imprese: apriamo un dibattito sui profitti e sulle marginalità delle imprese italiane di autotrasporto e logistiche?».
E’ un ragionamento, quello del dg di Confetra, che prende le mosse anche da un’altra evidenza: «Nel mondo le città portuali e di mare sono quelle più ricche, più tecnologicamente avanzate, più giovani e dinamiche. Solo in Italia non è così. Le principali dieci città portuali italiane sono collocate negli ultimi venticinque posti della classifica annuale sulla ricchezza delle province, mentre ai primi 5 posti troviamo Milano, Monza, Bologna, Parma e Bolzano. Diventa complicato pensare che in un contesto povero si possano generare buona occupazione e seri profitti imprenditoriali».
E non può nemmeno essere presa in considerazione la teoria reaganiana dello sgocciolamento che indica un’idea di sviluppo economico, in voga soprattutto negli Stati Uniti negli Anni 80, che si basa sull’assunto secondo il quale i benefici economici elargiti a vantaggio di pochi-grandi-ricchi (in termini di alleggerimento dell’imposizione fiscale, ad esempio) favoriscano necessariamente, e ipso facto, l’intera società. «Con un PIL che cresce dell0 0,2%, e un settore così frammentato, fatto di 54 porti e 110 mila imprese, quello che sgocciola verso il basso non è praticamente niente».
Occorre allora provare ad invertire la tendenza, pur senza dimenticare di tamponare le emergenze, come quelle create dalla crisi pandemica: «Dobbiamo tamponare le emergenze. Ma non possiamo pensare soltanto ai tamponamenti, perché così rischiamo di finire in un ingorgo. In questo Paese va avviata una serie riflessione su come i porti possano tornare a generare” ricchezza”, che è un concetto un po’ più vasto di “volumi” . Se continuiamo ad attardarci in un dibattito novecentesco tutto e solo incentrato sulla necessità di infrastrutture e collegamenti per accrescere – molto in teoria – volumi “a prescindere”, allora non abbiamo capito nulla, né di numeri, né di economia, né di logistica».
Russo è convinto: «La logistica deve tornare a concepirsi in funzione della produzione industriale e come strumento al servizio dell’economia reale e del Paese».