«Chi ha detto che l’integrazione verticale debba essere per forza un male?» Gian Enzo Duci si pone la domanda nel bel mezzo di una intervista sul modello di governance della portualità italiana.
La questione non è di quelle su cui si possa sorvolare troppo: dopo aver conquistato il mare e il cielo (con l’acquisizione o creazione di compagnie aeree ad hoc destinate al cargo), i big carrier guardano oggi con sempre maggiore interesse al trasporto terrestre, allo stoccaggio e alla distribuzione delle merci. Il caso di MSC e delle società controllate operative nel ramo ferroviario (Medway), intermodale (Medlog) e autotrasportistico (MedTruck) sono solo uno dei tanti esempi che si possono fare.
Si tratta di un comportamento da stigmatizzare? «Certo che no» afferma a Port News il vice presidente di Conftrasporto. L’osservazione prende le mosse da un’analisi di quanto emerso nei giorni scorsi al Nazareno durante una riunione organizzata dai gruppi parlamentari del PD, a cui hanno preso parte diversi rappresentanti delle categorie del mondo portuale.
«Da una lettura della relazione presentata in quel confronto dal capogruppo PD alla Commissione Trasporti, Davide Gariglio, emerge ancora una volta da parte della politica una certa ostilità nei confronti delle società armatoriali, considerate quasi alla stregua di selvaggi liberisti» dice Duci.
«Non dimentichiamo che le navi hanno l’elica e che i grandi armatori hanno la possibilità di spostare linee e navi dove e quando vogliono. Da questo punto di vista, l’integrazione rappresenta un bene per il territorio perché favorisce il radicamento delle grandi compagnie nel tessuto economico del Paese. Un operatore radicato ha sicuramente maggiori difficoltà a riposizionare i propri traffici. Più che combatterli, i porti dovrebbero favorire questi processi. Ciò non vuol dire che non si debba vigilare su di loro: le normative sulla concorrenza devono essere applicate e rispettate da chiunque».
Questo ragionamento porta Duci a toccare un tema che gli sta a cuore, quello della governance: «E’ evidente ormai a tutti: il nostro sistema portuale è fermo da anni, quanto meno a giudicare dai volumi che transitano dalle nostre banchine».
La pandemia, la Guerra in Ucraina e altre problematiche hanno sicuramente fatto da freno allo sviluppo competitivo degli scali portuali «ma nessuno può negare che i nostri porti continuano ad essere in competizione uno contro l’altro. Abbiamo un sistema che, salvo un paio di eccezioni, non traguarda i mercati esteri in alcun modo».
Per il n.2 di Conftrasporto il sistema logistico e portuale nazionale si mostra vulnerabile e inadatto a cogliere alcune delle opportunità di crescita offerte da un contesto internazionale che da un punto di vista geopolitico e geografico sta “riposizionando” l’Italia in riattribuendole un ruolo che aveva perso dopo la fine della Guerra Fredda: «Nel momento in cui abbiamo una crescita dei siti produttivi nel bacino del Mediterraneo, con un incremento dei prodotti che ci arrivano da Paesi più vicini rispetto alla Cina, è chiaro che il transito dai porti italiani diventa quasi una tappa obbligatoria per arrivare ai mercati del centro e nord Europa».
Discorso diverso per la importazioni dalla Cina, nei confronti delle quali i porti del Northern Range sono e rimangono prima scelta rispetto a quella italiana, anche sei i sei giorni di viaggio in più per raggiungere Anversa o Rotterdam rappresentano oggi un crescente problema ambientale: «Per raggiungere questi porti ci vogliono più giorni di navigazione rispetto a quelli che occorrerebbero per arrivare in Italia. Si producono quindi più emissioni e sappiamo che l’UE ha stabilito degli obiettivi di riduzione chiari sull’inquinamento ambientale prodotto dalle navi, facendo pagare quelle che inquinano di più. Sulla base di un’analisi costi/benefici l’efficienza della logistica nord europea vale oggi un po’ di meno rispetto al passato e i vantaggi offerti dal posizionamento geografico del nostro Paese assumono nuovo interesse».
Il messaggio di Duci è chiaro: «Ci troviamo in una situazione congiunturale favorevole. Ci sono delle opportunità di crescita che non possono però essere colte dal singolo porto. Serve una regia nazionale più ampia per capire come intercettarle ed è qui che l’autonomia differenziata potrebbe acquisire un ruolo strategico: in fondo, le esigenze sono le stesse che furono giustamente evidenziate dal Ministro Delrio e messe nero su bianco nella riforma del 2016 della 84/94».
Purtroppo, quella riforma non ha portato i risultati che si proponeva di raggiungere. Per Duci non hanno funzionato i tavoli di partenariato, che avrebbero dovuto mantenere un confronto continuo tra gli operatori e le istituzioni, e del pari non ha funzionato come avrebbe dovuto la conferenza dei presidenti delle AdSP, che avrebbe dovuto svolgere funzioni di coordinamento delle strategie.
«Oggi serve un soggetto centrale forte che mostri di conoscere approfonditamente i mercati internazionali e la logistica italiana e che sappia agire di conseguenza con cognizione di vedute. L’assenza della regia nazionale si sta facendo sentire in modo pesante e rischia di avere delle ricadute sul futuro del Paese».
«Abbiamo aree come l’Africa del Nord che nel Bacino del Mediterraneo stanno acquisendo un’importanza strategica per l’Italia, ma stiamo continuando a investire nella realizzazione di terminal container distanti appena 100 km l’uno dall’altro, senza domandarci quali saranno i traffici e le tipologie di navi che arriveranno da questi Paesi. Il traffico dei rotabili oggi dovrebbe avere la stessa attenzione di quello Lo Lo» aggiunge.
Serve, dunque, una regia nazionale (“l’esperienza di Puertos del Estado, pur vedendone anche i limiti, è un esempio positivo” afferma), ma d’altra parte, non va perduto il legame col territorio: «Il nostro sistema portuale è profondamente integrato con le città; ne consegue che i comuni non possono non avere un ruolo rilevante nella governance dei porti. Con la trasformazione dei comitati portuali in comitati di gestione questo rapporto si è sfilacciato: oggi i rappresentanti nei cdg sono soltanto designati dagli enti locali ma non hanno verso di loro alcun tipo di vincolo operativo né sono tenuti a rispondere delle decisioni assunte in seno all’organo decisionale».
Quanto alle AdSP, Duci non arriva a sbilanciarsi a favore di una loro trasformazione privatistica: «Non capisco perché politici e opinion maker sentano il bisogno di ripetere che va salvaguardata la natura pubblicistica di questi enti. Penso però che nessuno la stia mettendo in dubbio. Quello su cui occorre riflettere semmai è la possibilità di dotare le Port Authority di strumenti operativi, anche di carattere privatistico, che le permettano di interagire in modo propositivo con il mercato».
Un esempio? Far sì che le AdSP possano svolgere indirettamente attività di carattere logistico, acquisendo partecipazioni in società ritenute strategiche: «Zeno D’Agostino a Trieste e Pasqualino Monti a Palermo lo stanno facendo, non vedo perché la loro esperienza non debba essere riconosciuta a livello nazionale».
Quello che conta, in fondo, è soltanto una cosa: permettere alle Autorità di Sistema Portuale di essere efficienti e tempestive nelle risposte da dare alle domande di sviluppo del territorio: «Ricordiamoci che i porti italiani erano molto più agili ed efficienti prima di essere inseriti nell’elenco ISTAT degli enti pubblici: oggi le modalità e le tempistiche di selezione e individuazione del personale non sono coerenti con le esigenze di sviluppo professionale di questi enti: il consequenziale utilizzo di consulenze esterne non genera alcuna crescita all’interno delle competenze delle stesse AdSP».
Su questi e altri temi, come la modifica del regolamento concessioni, Il Governo pare aver assunto, a detta di Duci, un atteggiamento aperto al confronto: «Questo Governo sembra essere attento al dialogo con le opposizioni e c’è spazio per un lavoro a più mani che coinvolga tutte le forze parlamentari» afferma. «Evitiamo però di trasformare la portualità in un terreno di scontro politico: si tratta di un tema di importanza vitale sui cui si dovrà misurare la capacità di competere del Paese».