Il 4 marzo scorso è stata annunciata la vendita degli asset della società terminalista Hutchison Ports da parte del conglomerato cinese (Hong Kong) CK Hutchison Holdings al consorzio formato dalla società d’investimenti statunitense BlackRock, da Global Infrastructure Partners (specializzata in infrastrutture e controllata dalla stessa BlackRock) e dalla società terminalista Terminal Investment (controllata da compagnia di navigazione svizzera MSC).
“L’operazione di compravendita, che riguarda il 90% del capitale detenuto da HPH in Panama Ports Company e dell’80% di CK Hutchinson, non è un semplice passaggio di consegne di uno o più terminal portuali da un gruppo all’altro, ma ha un evidente valore politico strategico” commenta a Port News Gian Enzo Duci.
Secondo il Professore dell’Università di Genova, nonché vice presidente di Conftrasporto Confcommercio, per quanto le dichiarazioni ufficiali si limitino ad evidenziarne la sola valenza economica, l’operazione è chiaramente stata favorita dalla pressione sul venditore esercitata dalla Casa Bianca. “Il colosso di Hong Kong ha deciso di vendere, o comunque di accelerare la vendita del proprio ramo terminalistico non cinese, nonché dei due porti che controlla all’ingresso e all’uscita del Canale di Panama, per evitare un effetto a catena sul resto del gruppo. Non dimentichiamo che le dichiarazioni di guerra commerciale di Trump alla Cina, accusata tra le altre cose, di avere una posizione di controllo dominante sui traffici del Canale, avevano fatto perdere all’intera CK Hutchinson il 25% in Borsa in un giorno”.
La società è stata per lungo tempo il primo operatore terminalistico globale (si ricordi anche la sua non fortunata esperienza a Taranto), salvo poi perdere posizioni nel corso degli ultimi sei anni, sino a scendere in sesta posizione: “Dai dati di Drewry emerge che nel 2023 Hutchinson Ports ha gestito, attraverso i propri terminal, 43 milioni di TEU, un milione in più rispetto ai 42 milioni di container da venti piedi movimentati dai terminal di MSC. Negli ultimi anni, però, il colosso di Hong Kong ha puntato a diversificare le proprie attività, sino a maturare interessi economici in altri settori, come quello delle telecomunicazioni, dell’immobiliare, dell’energia e del retail”.
D’altra parte, “sebbene non siano ancora state rese note le proporzioni della JV con Blackrock, con questa operazione, il gruppo di Gianluigi Aponte ha praticamente raddoppiato la propria capacità portuale, acquisendo la gestione di quasi tutto il network di CK Hutchinson. Dalla compravendita è di fatto stata esclusa Trust HPH, che gestisce terminal a Hong Kong, Shenzhen e in Cina meridionale, e qualsiasi altro porto in Cina”.
I numeri parlano chiaro: “Con questa operazione MSC dovrebbe diventare il primo terminal operator globale, superando PSA che oggi detiene la leadership nel settore con 62,5 mln di TEU movimentati”.
Per Duci la mossa sottolinea ancora di più l’intenzione di MSC di valorizzare la propria posizione di “cavaliere solitario” nel mercato globale della logistica marittima. “Il gruppo di Aponte ha dimensioni tali da non aver più bisogno di allearsi con nessun player di settore e l’agilità di operare da soli rende molto più facile la gestione di qualsiasi forma di integrazione verticale” ammette.
“Ed è altrettanto evidente che MSC stia svolgendo un ruolo centrale nel superamento del gap competitivo che gli Stati Uniti hanno nel settore dei trasporti. Se con l’acquisizione di Bollorè in Africa, il liner si è rivelato essere il cavaliere bianco necessario per provare a frenare l’espansione cinese nel Continente nero, con quest’ultima operazione, Aponte giunge ancora una volta a giocare di sponda con la superpotenza americana, ritagliandosi un ruolo di primissimo piano, addirittura determinante, per le strategie economiche dell’amministrazione Trump”.
Non sembra un caso che CMA CGM, due soli giorni dopo i comunicati stampa dell’operazione sull’asse Svizzera USA e appena reso noto il prospettico superamento di Maersk quale secondo player del mercato container grazie ad un maggiore orderbook, abbia annunciato investimenti per 20 miliardi di dollari nello shipping americano facendo forza sul rilancio del suo iconico brand American President Line (APL). Ma, forse, dietro c’è anche di più, se è vero come è vero che la compagnia di navigazione con sede a Marsiglia non si è limitata ad annunciare l’intenzione di aggiungere 20 navi alla flotta di APL, ma ha anche dichiarato di voler sviluppare infrastrutture portuali in località chiave negli States, come New York, Los Angeles, Dutch Harbor, Houston e Miami (altro tema chiave della politica economica trumpiana).
Gli USA rimangono il più importante mercato al Mondo e, tra chi proviene dai paesi (per quanto maltrattati da Trump) “amici” nessuno vuole rimanere indietro.
Resta ora da vedere come si svilupperà nel suo complesso il braccio di ferro doganale-economico che Trump ha avviato con Pechino. Secondo Duci, l’ipotesi di Trump, svelata nei giorni scorsi dall’United States Trade Representative, di imporre tasse portuali alle compagnie di navigazione cinesi, alle navi costruite in Cina e a qualsiasi operatore marittimo che abbia nella propria flotta navi costruite in Cina o unità su ordinazione presso un cantiere cinese, rischia di avere delle ricadute meno significative sui traffici da e per gli Stati Uniti di quanto si possa inizialmente immaginare.
“Le navi costruite in Cina che oggi scalano gli USA sono solo il 26% del totale, mentre le navi costruite in Corea del Sud e Giappone rappresentano oltre il 60%. Il peso della flotta “made in China” sugli USA è meno rilevante rispetto ai trade tra Asia ed Europa”.
Dall’analisi delle flotte dei principali carrier risulta inoltre come MSC abbia ad oggi 220 navi cinesi su un totale di 802, Maersk ne ha 199 su un totale di 735, CMA CGM ne ha 274 su 665, COSCO ne ha 306 su 517 e Hapag Lloyd ne ha 72 su 301.
Guardando invece al portafoglio ordini complessivo, la situazione si fa più pesante, il 93% delle navi ordinate da MSC verrà costruito in Cina, Hapag Lloyd, Maersk, CMA CGM hanno nel proprio portafoglio rispettivamente il 91, 70 e 52% di navi commissionate ai cantieri cinesi.
A livello economico, l’imposizione di nuove tasse portuali per ogni scalo effettuato da una nave costruita in Cina si inserirebbe in un contesto già caratterizzato da alti costi: “La movimentazione di un container negli USA è già oggi dalle quattro alle sei volte più costosa rispetto agli standard europei: Se a questi costi aggiungessimo la sovrattassa portuale di un milione di dollari, avremmo un aumento complessivo dei costi portuali compreso tra il 12 e il 15% per una nave di medio grande dimensione”.
Certamente, “la mossa di Trump potrebbe spingere i liner ad incrementare le dimensioni delle navi da immettere nei trade dal Far East agli USA e a concentrare gli scali su un numero minore di porti, ammesso e concesso che riescano a reperire un numero sufficientemente ampio di navi di grandi dimensioni non costruite in Cina” ammette Duci.
La mossa del presidente USA rischia di quindi avere un effetto boomerang e di evidenziare i punti di debolezza della portualità americana: “La crescita dimensionale delle navi potrebbe esporre i porti USA a seri problemi di congestione, mettendo in evidenza le inefficienze infrastrutturali di cui soffre il sistema portuale nazionale” conclude il Professore.