Interventi

Alla ricerca di una visione strategica

Il futuro inceppato dei porti italiani

di Pietro Spirito

Già presidente dell’AdSP del Mar Tirreno Centrale

La questione marittima può costituire una delle opportunità non solo per riportare l’economia meridionale in una linea di galleggiamento, dopo i recenti decenni che hanno aumentato il divario rispetto al centro-nord, ma anche per superare le secche di una stagnazione ormai lunga, che ha condotto l’Italia su un sentiero di declino, con una produttività ferma al palo ed un prodotto interno  con qualche decimale di crescita annua.

In un Paese con oltre 8.000 chilometri di coste, la cerniera tra territorio nazionale ed economia internazionale costituita dai porti è uno degli elementi fondamentali per rilanciare il ruolo dell’Italia nel contesto globale.

Eppure, nonostante l’evidente natura strategica della questione, tale tema stenta a trovare il posto di rilievo che dovrebbe avere nella discussione pubblica sulle prospettive dell’Italia. Me ne sono occupato in un recente libro, pubblicato da Guida editore, su “Il futuro dei sistemi portuali italiani. Governance, spazi marittimi, lavoro”.

Anche nel Piano Nazionale per la Ripresa  e la Resilienza (PNRR) non emergono novità particolarmente significative nella visione del sistema portuale italiano. Prosegue una concezione  delle infrastrutture che si disarticola per le diverse modalità, senza un disegno unitario del sistema  logistico. Stenta a comprendersi che solo una visione olistica delle reti di connessione può generare quel vantaggio competitivo che oggi è diventato ancora più strategico per la crescita del commercio internazionale e per l’attrazione degli investimenti esteri. Non emerge una prospettiva internazionale in chiave europea e mediterranea. Oggi – ancor di più – si avverte l’esigenza di un progetto  geopolitico e geostrategico che sia in grado di collocare gli investimenti infrastrutturali in un perimetro largo composto dalle politiche industriali, logistiche e turistiche su scala mondiale. L’economia oggi è guidata dalle catene globali del valore che hanno riarticolato e ridisegnato i processi produttivi e logistici. Fuori da questo circuito si resta su un crinale di marginalizzazione.

Ancora una volta i porti meridionali, che pure movimentano quasi la metà delle merci in arrivo ed in partenza dal nostro Paese, sono rimasti sullo sfondo di una visione tradizionale, ancorata sostanzialmente all’economia italiana di diversi decenni fa, quando il nostro Paese esprimeva capacità competitiva attraverso le grandi industrie settentrionali ed i distretti del nord est. Quel mondo è scomparso, eppure noi ci aggrappiamo ancora alla visione di un sistema manifatturiero che non c’è più.

Intanto tutto lo scenario si è radicalmente modificato, e noi non abbiamo riflettuto sulle modalità attraverso le quali assicurare una continuità competitiva al sistema produttivo nazionale, nell’era delle catene globali del valore, e nel passaggio dal capitalismo dei territori a quello delle piattaforme.

L’Italia, ed il Mezzogiorno ancor di più, si è sganciata dal treno della rivoluzione tecnologica, restando in buona parte estranea alla riorganizzazione del capitalismo digitale, se si esclude il decentramento produttivo di alcune industrie alla ricerca tattica di economia di costo. È mancata una visione strategica ed ora se ne vedono le conseguenze, dopo una lunga stasi della produttività totale dei fattori.

Il sistema portuale ha risentito dell’arretramento competitivo nazionale. Non ha colto le opportunità di crescita, mentre si sono sprecati fiumi di inchiostro sull’Italia quale piattaforma logistica del mediterraneo. Solo l’intuizione di un imprenditore illuminato, quale è stato Angelo Ravano, ha consentito a Gioia Tauro di intercettare parte dello sviluppo mediterraneo del traffico dei contenitori, nel modello del porto di transhipment che ha intercettato i transiti delle navi madre, di dimensione crescente, oggi sino ai  24.000 contenitori per le unità più grandi.

Ora, in un contesto che rende sempre più solidi i monopoli e gli oligopoli, nell’industria e nella logistica, stiamo consegnando capisaldi decisivi del nostro sistema infrastrutturale ai pochi soggetti che detteranno le condizioni al mercato. Nel caso del trasporto marittimo stanno maturando le condizioni per la realizzazione di un oligopolio bilaterale che stringe legami tra vettori marittimi e terminalisti portuali, particolarmente nel settore dei containers. MSC è il secondo armatore al mondo, subito dopo Maersk: tra le due aziende si è formata una alleanza che assieme ad altri due raggruppamenti governa quasi il 90% del traffico containers. La stessa MSC sta raggiungendo un dominio particolarmente esteso nei terminal portuali italiani del Mar Tirreno, con il governo dei terminal containers a Gioia Tauro, Napoli, Civitavecchia, Genova.

Gioia Tauro, che aveva conosciuto nella seconda metà degli anni Novanta ed all’inizio del nuovo millennio una crescita particolarmente robusta, sta tornando in questi mesi ai livelli di traffico precedenti. Proprio l’acquisizione del terminal da parte di MSC, che prima era azionista al 50%, ha determinato un rilancio delle quantità di contenitori concentrate nel porto calabrese.

Nel disegno della portualita’ italiana che viene tracciato dal PNRR torna invece di attualità la vecchia tesi delle due “ascelle” portuali settentrionali, rispettivamente collocate nel Mar Tirreno e nel Mar Adriatico, mentre il resto del sistema è visto sostanzialmente in una funzione ancillare.

Oltretutto, la quota più rilevante delle risorse destinate agli investimenti nella portualità (3.3 miliardi di euro per la durata del PNRR, sino al 2026) è indirizzata per la realizzazione della diga foranea di Genova, con uno stanziamento previsto di 500 milioni di euro, rispetto ad un costo dell’intero progetto pari, secondo le stime più attendibili, a poco meno di 2 miliardi di euro.

La novità più significativa, aggiunta nella fase conclusiva della redazione del PNRR, riguarda il rilancio delle zone economiche speciali (Zes).  Il Governo  di Mario Draghi, per iniziativa del Ministro Mara Carfagna, ha assunto, nell’ambito del Decreto Semplificazioni, l’opportuna iniziativa di varare l’autorizzazione unica per insediare nelle Zes nuovi stabilimenti industriali e logistici: rispetto alle 34 autorizzazioni precedentemente necessarie si tratta di un rilevante passo in avanti per attrarre investimenti e rilanciare lo sviluppo. Questo provvedimento  si affianca ai 630  milioni di euro previsti per rafforzare l’armatura infrastrutturale delle Zes, portando a circa 4 miliardi il totale delle risorse stanziate per il sistema portuale italiano nel PNRR.

Lo strumento delle zone economiche speciali, che sono oggi più di 5.000 nel mondo, costituisce una nuova chiave di politica industriale che ha rappresentato la formula di successo dei porti di Tanger Med in Marocco o Shenzhen in Cina. Anche qui, però, non si può pensare che le zone economiche speciali abbiamo successo se il Paese non sarà in grado di intercettare le catene globali del valore con le quali si articola l’economia mondiale.

Un solo dato potrebbe aiutare a riflettere: negli assi settanta del secolo passato operavano circa 7.000 grandi aziende multinazionali. Ora questo numero  è arrivato a superare quota 140.000: l’Italia, invece, continua ad essere caratterizzata da medie e piccole imprese, se si esclude qualche caso di aziende che però definiamo “multinazionali tascabili”.

La danza del cambiamento è guidata dalla grande dimensione, e gli altri soggetti economici sono sostanzialmente vassalli nella struttura delle catene globali del valore. Senza un riposizionamento economico del tessuto produttivo, nazionale e meridionale, sarà davvero molto difficile tornare a contare nel disegno della geopolitica internazionale, composta da poteri economici che strutturano i mercati, determinando una gerarchia concorrenziale.

Le zone economiche speciali potranno aver successo solo se intercettano le traiettorie del modello manifatturiero che si è affermato su scala internazionale. Non basta disegnare, come pure è necessario, un pacchetto localizzativo attraente in termini di incentivi fiscali e di misure di semplificazione amministrativa. Serve attrarre soggetti imprenditoriali nodali che siano in grado di generare ricadute produttive sui territori in termini di filiera e di internazionalizzazione.

Questo aspetto riguarda la dimensione economica della sfida portuale. Ma non basta.  Alla base di un disegno strategico così lacunoso sul sistema portuale italiano esiste una carenza di visione geopolitica e geoeconomica.

Per l’intera Unione Europea la partita dei prossimi due decenni si giocherà nel Mediterraneo: un quarto dei traffici marittimi mondiali transitano nel Mare Nostrum, all’interno del quale la Cina ha posizionato le due pedine strategiche di posizionamento nel porto del Pireo e nei porti del Nord-Africa.

Dal punto di vista militare la Russia e la Turchia stanno progressivamente incrementando la propria sfera di influenza mediante il ricorso ad una presenza militare sempre più visibile, dalla Siria alla Libia.
L’Unione Europea non potrà mai aspirare ad un ruolo nel confronto tra le grandi potenze se non sarà in grado di imporre il proprio punto di vista in casa sua, vale a dire nel sistema mediterraneo.

L’Italia potrebbe e dovrebbe svolgere questo ruolo, assieme a Francia, Spagna, Grecia. Il Next Generation EU prevedeva non soltanto azioni nazionali dei singoli Stati membri, ma anche interventi trasversali di diverse Nazioni si temi strategici di interesse comune. Che a nessuno sia venuto in mente di costruire un disegno di consolidamento e di sviluppo per il Southern Range mediterraneo è sintomo di una grave debolezza strategica del pensiero comunitario.

Nulla si dice sulla necessità strategica di potenziare le autostrade del mare tra la sponda nord e quella Sud del Mediterraneo, così come è stato fatto nel Nord Europa, dove questi collegamenti sono finanziati con risorse comunitarie. Sarebbe nell’interesse comunitario intessere una rete fitta di collegamenti marittimi nello spazio mediterraneo, per contrastare l’egemonia cinese.

Le connessioni, oltre alle infrastrutture, giocano un ruolo di assoluto primo piano nella politica commerciale internazionale, perché determinano opportunità di scambio che possono modificare anche la mappa delle relazioni internazionali dalla quale dipende il confronto concorrenziale tra i grandi blocchi economici.

Si rischia di perdere una grande occasione che riguarda non solo l’Italia, ma l’intera Europa. Nello spazio economico mediterraneo si gioca una delle partite decisive per il posizionamento geostrategica in un  mondo che sarà caratterizzato da una globalizzazione sempre più di natura regionale.

La principale innovazione contenuta nella ultima versione del PNRR riguarda lo stretto legame che si costruisce tra piano degli investimenti e riforme per la modernizzazione. Sin dall’inizio questo principio costituiva un pilastro nelle linee guida del Next Generation EU.

Anche per l’organizzazione futura dei porti il disegno riformatore sarà un elemento centrale. Sono previsti una serie di interventi importanti per superare gli immobilismi che hanno rallentato la competitività del sistema italiano. Innanzitutto, la semplificazione normativa dovrebbe consentire tempi di attraversamento minori per la realizzazione degli investimenti.

Poi sarà definito finalmente un regolamento sulle concessioni che si attende dalla legge 84/94, con la definizione dei criteri in base ai quali saranno assegnate ai privati le concessioni delle attività economiche nei  porti.

Si vedrà come saranno superare le resistenze che si preannunziano già per le concessioni turistico ricreative, per le quali oggi esiste una legge nazionale, in ampio e chiaro contrasto con la normativa comunitaria, che prevede una proroga di queste concessioni al 2033.

Proprio sul fronte delle riforme si potrà misurare l’efficacia delle azioni previste dal PNRR. Superare l’ingessamento burocratico – che ha sinora impedito una risposta competitiva dei porti italiani rispetto alla evoluzione dei mercati – sarà la sfida fondamentale per consentire al sistema portuale italiano di supportare il tessuto industriale mediante una adeguata organizzazione logistica.

Resta però la necessità di allargare la vista, e di considerare il futuro della portualità italiana all’interno di un orizzonte più vasto, connettendola al rilancio industriale, alla logistica, al ridisegno delle relazioni internazionali. Non si tratta solo di costruire infrastrutture. È necessario costruire  una visione condivisa.

E non dobbiamo nemmeno dimenticare che l’economia nazionale continua ad essere caratterizzata da una componente di produzione sommersa ed illegale. I porti rispecchiano anche queste antiche distorsioni del nostro Paese, anche e soprattutto nel Mezzogiorno. Ed i porti italiani, anche quelli meridionali, si caratterizzano per tutta una serie di traffici illegali: dal traffico di armi a quello della droga, dalle esportazioni di rifiuti pericolosi alla importazioni di prodotti contraffatti.

Stroncare l’illegalità è un requisito indispensabile per rilanciare la portualita’ nazionale nello scenario dell’economia globalizzata dei nostri tempi. Oggi invece siamo stretti nella doppia gabbia di un modello economico entrato in crisi irreversibile, e di un sistema che spesso funziona andando oltre la soglia della legalità.

Il combinato disposto di questi due mali conduce alla marginalizzazione dell’Italia e del suo Mezzogiorno. Le ingenti risorse che l’Unione Europea ha deciso di investire in Italia  servono proprio a riscrivere i meccanismi di funzionamento del sistema.

I prossimi passi sulle riforme saranno davvero decisivi. I primi tre pilastri che stiamo affrontando riguardano la riforma della giustizia, la legge sulla concorrenza, la riforma delle concessioni. Si vedrà dall’esito finale del confronto tra le forze politiche: e allora capiremo  se ne usciremo con adattamenti gattopardeschi oppure se, una volta tanto, decideremo davvero di imboccare la strada,  difficile ma necessaria,  del cambiamento e della trasformazione.

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