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Interventi

Logistica portuale sotto pressione

Il gigantismo navale non è una virtù

di Angela Stefania Bergantino

Professore ordinario di Economia dei Trasporti all’Università di Bari
Presidente di SIET – Società Italiana di Economia dei Trasporti e della logistica

Il settore dei trasporti marittimi è al centro di una rivoluzione senza precedenti. Tutte le tipologie di navi stanno conoscendo una crescita senza pari, dalle bulk carriers alle petroliere, dalle ro-ro ai traghetti passeggeri e navi da crociera, alle portacontainer. Le portacontainer hanno ormai dimensioni incompatibili con gran parte delle infrastrutture portuali esistenti. Nel giugno del 2017 ha fatto scalo al porto di Felixstowe la OOCL Hong Kong di 21.413 TEU, operata all’interno della Ocean alliance. Questa nave ha una lunghezza superiore ai 400 metri, pari a quattro campi di calcio, e una sagoma di 60 metri di larghezza. Navi di questo tipo, grandi il doppio di quelle che solo dieci anni fa erano considerate flag-ship, rendono obsoleto il termine Ultra Large Container Ship (ULCS). La MSC da sola, che ha più di 90 unità in questa fascia dimensionale, ha anche 11 navi in cantiere da 23.350 TEU.

Questa crescita della capacità, tuttavia, non è accompagnata da una coerente crescita dei flussi di traffico containerizzati, che sta costringendo le compagnie armatoriali ad adottare strategie di riduzione dei costi: dallo slow steaming (che associa alla riduzione del costo di bunkeraggio una contrazione temporanea della capacità che è “tenuta impegnata” in mare) alla riduzione degli scali, al rafforzamento e all’estensione delle alleanze e degli accordi cooperativi. Le economie di scala (gigantismo) non sembrano insomma il fattore più rilevante per affrontare la crisi: un ruolo decisivo continua invece a essere giocato dalla riduzione del costo di realizzazione delle navi.

Una delle motivazioni di questi continui investimenti nelle mega-carriers consiste nel circolo vizioso innescato nel mercato armatoriale. Invece di contenere la capacità esistente nel mercato, le grandi compagnie armatoriali aggiungono ogni anno nuova capacità, sotto l’influsso dei bassi tassi d’interesse (e delle agevolazioni fiscali) e nella prospettiva che le navi rappresentino degli asset finanziari di lunga durata (più che strumenti di commercio). Ma la crescita mondiale del settore non si è ancora ripresa, i margini di redditività rimangono bassi e tutto ciò si trasforma nella ricerca di abbattere i costi portuali.

La pressione sui porti e sulla logistica è dunque fortissima. Accogliere navi di oltre 23mila TEU richiede ingenti investimenti lato-mare (banchine e, soprattutto, dragaggi) ma soprattutto infrastrutture di accesso, facilities dedicate e servizi di dimensione completamente diversa rispetto all’attuale. La capacità di reazione del sistema logistico integrato terra-mare e l’efficienza del sistema autostradale e ferroviario sono messe a dura prova. La tentazione per i porti di andare incontro alle esigenze delle mega-carriers per paura di perdere il ruolo di hub è forte, mentre aumenta la concorrenza interna, sul modello degli aeroporti messi sotto bastone dalla compagnie low cost. Spesso, dove i finanziamenti sono pubblici, la capacità di influire dei grandi gruppi armatoriali è ancora più elevata.

Bisogna però domandarsi se il non essere parte della rete delle mega-carriers, significa effettivamente perdere la connettività e aumentare i costi di trasporto. Anche nei principali scali europei si sta rivalutando criticamente la rincorsa alle decisioni delle compagnie di navigazione: non solo dei porti del Sud Europa ma anche ad Amburgo e Anversa. Si può continuare a investire risorse scarse per inseguire il gigantismo navale? È così proficuo?

Seguire questa strada posiziona gli scali in una situazione di potenziale scacco, dovendo impegnarsi a mantenere il rapporto con i giganti… a qualunque condizione per poter dimostrare la viabilità dell’investimento. La battaglia tra porti si sposterebbe a una battaglia tra Paesi, e, dati i vincoli di finanza pubblica dei Paesi UE, si tratterebbe, soprattutto per gli scali del Mediterraneo, di una battaglia persa in partenza. Considerando anche la concorrenza in crescita dei Paesi del Nord Africa e le risorse messe in campo dalla Turchia.

È necessario pensare a una strategia più equilibrata di ripartizione dei traffici tra i porti, nei quali da poco si sta concretizzando il nuovo assetto disegnato dalla riforma. Sarà più utile concentrare le mega-carries in pochi di essi e attrezzare gli altri per essere dei porti di inoltro e lavorazione delle merci con una più marcata specializzazione. Bisogna guardare ai numeri: il nostro sistema-Paese è in grado di rendere sostenibili traffici che alimentano navi di queste dimensioni? Quale sarebbe il trade-off tra investimenti e ricadute economiche per il territorio? Prevarrà ancora la competizione e dunque la corsa all’infrastrutturazione a qualunque costo oppure la governance sarà in grado di comprendere che la strategia vincente è quella della co-petition che porta a una razionalizzazione delle scelte e a una concorrenza orientata alla crescita dell’intero sistema?

La dotazione infrastrutturale a mare di alcuni dei nostri porti come Vado, Trieste, Taranto, Gioia Tauro e la posizione geografica di quelli del nord Tirreno e dell’Adriatico poco hanno da invidiare ai porti del Nord Europa. Ma solo lo sviluppo delle reti logistiche a terra e gli investimenti nei colli di bottiglia al confine consentiranno a questi scali una chance per erodere, almeno in parte, il tradizionale dominio dei porti dell’Europa settentrionale nei mercati confinanti d’oltralpe. Le regole del gioco sono chiare e l’orientamento del centro è univoco, i singoli giocatori adesso sono chiamati a dare le carte. Senza dover necessariamente, tutti, far fronte alle richieste dei giganti.

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