© Luigi Angelica
Interventi

Il paradosso del comma 7

di Massimo Provinciali

Segretario Generale dell’AdSP del Mar Tirreno Settentrionale

Se non fosse piombato anche sulla portualità e la logistica il “ciclone Coronavirus”, avremmo potuto dire che la discussione sull’ormai famigerato articolo 18, comma 7, della legge n.84 del 1994 (di seguito, la Legge), ha rubato la scena al tema della tassazione e della natura giuridica delle autorità di sistema portuale.

Si applica? Non si applica? È un comma che va abrogato?

Provo a dire la mia, andando con ordine e cercando di dare un contributo di chiarezza, sperando di rendere comprensibile la questione anche ai non addetti ai lavori.

Partiamo dalla disposizione. Che cosa dice? Che un terminalista (cioè il titolare di una concessione demaniale per lo svolgimento di operazioni portuali), non può ottenere un’altra concessione nello steso porto per svolgere lo stesso tipo di attività.

Detta così sembra semplice, ma il problema sorge quando questa formulazione impatta con le esigenze dell’economia, dello sviluppo dei traffici e (perché no?), dei profili occupazionali.

Allora bisogna fare un piccolo sforzo e, da un lato andare ad individuare qual è l’interesse pubblico tutelato dalla norma, dall’altro contestualizzare la norma medesima.

Per poterci avventurare in questa analisi, occorre rispolverare alcuni semplici “fondamentali”.

Primo principio della portualità. L’attività principale, o meglio la mission dell’Autorità di Sistema Portuale, è lo sviluppo dei traffici e dell’occupazione. Oltre ad essere un principio intuitivo, questa funzione la troviamo formalmente codificata nella Legge all’articolo 6, comma 4, lett.a), all’articolo 8, comma 3-bis, all’articolo 18, comma 6, lett.a), e permea tutta l’azione tecnico amministrativa dell’Ente: a che scopo investire nella realizzazione di infrastrutture se non per portare traffici e lavoro?

Secondo principio della portualità. Lo sviluppo dei traffici e dell’occupazione non può certo avvenire con modalità dirigistiche ed autoritarie. La legge n.84 del 1994 ha disposto che le operazioni portuali fossero svolte da soggetti privati in regime di libero mercato, regolato quel tanto che basta in considerazione del fatto che si svolge in uno spazio fisicamente limitato, quindi il secondo principio, che fa da corollario al primo, è quello della tutela della concorrenza. Si tratta di un passaggio fondamentale, perché occorre comprendere che in questo settore (come in tutti quelli che hanno a che vedere con il libero mercato), più che norme precettive intervengono norme di principio del cui rispetto l’AdSP è garante. Attenzione però! La concorrenza leale e proporzionata non va tutelata come principio astratto ma perché si ritiene sia la strada per pervenire alle soluzioni migliori per il cliente finale; quindi anche in questo caso, lo scopo, la ratio del principio è che la tutela della concorrenza sia strumentale per la tutela dell’utente.

E come si garantisce la tutela della concorrenza? Declinandola nelle quattro classiche modalità operative costantemente richiamate dalla normativa comunitaria (che è, appunto, normativa di princìpi): a) parità di trattamento; b) non discriminazione; c) trasparenza; d) pubblicità.

Il mercato rilevante. Come ho già accennato, uno degli elementi caratteristici del mercato delle operazioni portuali cui è necessario fare riferimento per definire i limiti del potere di regolazione dell’AdSP, è l’individuazione dello spazio fisico in cui tale regolazione si svolge. Questo spazio fisico, nel 1994 all’alba della riforma portuale, venne identificato nel singolo porto; poi, attesa la relativa facilità per l’impianto-nave di scegliersi la propria destinazione, si è ampliato il concetto al “bacino di riferimento”, che può essere un bacino di produzione (per le merci in imbarco), oppure un bacino di consumo (per le merci in sbarco). Di sicuro, la riforma Delrio del 2016, abbandonando il concetto del porto puntuale, fa sì che il mercato rilevante sia, come minimo, quello costituito dai porti del sistema portuale amministrati dall’AdSP, altrimenti quale sarebbe la giustificazione trasportistica della parola “sistema”?

Avendo ora a disposizione gli ingredienti, possiamo provare a cucinare la pietanza “articolo 18, comma 7”, andando per successivi affinamenti del ragionamento.

Cerchiamo innanzi tutto la ratio della norma, l’interesse pubblico sottostante a tale formale divieto. È chiaro che tale interesse è la tutela della concorrenza, ovvero evitare che in un “mercato rilevante” un soggetto acquisisca una posizione dominante della quale potrebbe in seguito abusare a danno di potenziali concorrenti e dell’utenza, traendone conseguentemente un ingiusto vantaggio economico. Se quindi in un mercato rilevante (identifichiamolo, per semplicità, nei porti di un medesimo sistema portuale, ma non è detto che siano solo questi), un concessionario, chiedendo un’altra concessione, limitasse la possibilità di presenza di un altro operatore, scatterebbe senz’altro per l’AdSP l’onere di tenere in considerazione il divieto di cui all’articolo 18, comma 7, della Legge.

Ma se non ci fossero, all’attualità o in un prevedibile futuro prossimo, istanze concorrenti, perché rinunciare alla possibilità di sviluppo dei traffici e dell’occupazione in nome della difesa di una disposizione che a quel punto sarebbe un vuoto simulacro perché non c’è nessuna concorrenza da tutelare? È evidente che in questo caso un saggio amministratore privilegerebbe l’incremento dei traffici e non l’inutile pedissequa applicazione della disposizione.

È questo, a grandissime linee, il ragionamento che sta alla base della ormai famosa (e consolidata…) “sentenza Bettolo” del TAR Liguria n. 747/2012 del 15 marzo 2012, che ha esattamente estrapolato da una lettura sistematica e teleologica delle norme questo principio: cara Autorità, tu hai la missione di favorire i traffici e l’occupazione nel rispetto dei princìpi regolatori del mercato e della libera concorrenza; questo devi fare, al di là della letterale formulazione di disposizioni che non vanno considerate pedissequamente cogenti. E in linea con questo principio si sono susseguite pronunce giurisprudenziali e posizioni della dottrina.

Ma proviamo ad affinare ancora un po’ il ragionamento.

Poniamo che, oltre alla domanda di concessione del già concessionario, ve ne sia un’altra di un nuovo operatore. Sembrerebbe facile propendere per l’immediata applicazione del divieto di cui all’articolo 18, comma 7, della Legge. Ma se il già concessionario mi propone un incremento di traffici di due milioni di tonnellate e il nuovo operatore solo di duecentomila? In questo caso a maggior ragione la decisione deve passare attraverso un’analisi ragionata e non pedissequa, il cui risultato potrebbe essere, a seconda dei risultati dell’analisi medesima, ovviamente con motivazioni diverse, alternativamente la preferenza per chi porta più merce oppure la preferenza per l’insediamento di un nuovo operatore.

Insomma, la rigida applicazione del divieto di cui all’articolo 18, comma 7, andava benissimo nella fase di start up della Legge, quando il passaggio dagli enti portuali imprenditori e dal monopolio delle compagnie portuali alla privatizzazione e alla liberalizzazione regolata delle operazioni portuali aveva bisogno di una attenta vigilanza. Nella realtà di oggi, posti i princìpi fondamentali di cui in premessa, non c’è una soluzione univoca, ma l’applicazione di detti princìpi va declinata da ciascuna AdSP con provvedimenti motivati che diano conto della bontà della scelta operata.

In questo senso, non solo tra un’AdSP ed un’altra, ma perfino nella medesima AdSP potrà esserci una diversa applicazione della disposizione in funzione delle condizioni di contesto. L’importante è che (come ormai è la regola da oltre trenta anni) le decisioni vengano adottate in trasparenza con provvedimenti non discriminatori adeguatamente e congruamente motivati.

Insomma, ricordate “Comma 22”? Parafrasando il fortunato romanzo di Joseph Heller, potremmo dire che l’articolo 18, comma 7, è a tutela della concorrenza, ma chi tutela la concorrenza non applica bovinamente l’articolo 18, comma 7.

Intesa la vicenda nel senso che ho provato a riassumere, la permanenza della norma (alla cui abrogazione personalmente sono favorevole), non solo diventa inutile, ma rischia di essere controproducente perché la sua rigida applicazione può escludere dal mercato iniziative di grande vantaggio per l’economia locale e provocare una paradossale discriminazione al contrario: si perde un’opportunità “solo perché” presentata da un operatore che ha già una concessione (in questa sede mi limito ad accennare il tema della possibile “scorciatoia” che alcune imprese potrebbero intraprendere, creando ad hoc società controllate, in modo tale che, pur non essendo formalmente prodotte da chi è già concessionario, le istanze siano formulate da soggetti ad esso riferibili).

Ne esce rafforzata la funzione regolatoria dell’AdSP, bilanciata da un forte onere di motivazione, funzione alla quale sono personalmente assai affezionato e che secondo me è la chiave di volta anche della partita con l’Unione Europea sulla natura giuridica dell’Ente e (quindi) sulla tassazione dei canoni di concessione (tema sul quale ho dettagliato il mio pensiero in un precedente intervento pubblicato su queste colonne).

In un periodo nel quale si tende a comprimere al massimo il potere discrezionale degli amministratori pubblici, vincolandoli a rigidi parametri precostituiti o agitando il pericolo di denunce penali o contabili, con l’obiettivo di trasformarci in distributori automatici di provvedimenti, la vicenda dell’articolo 18, comma 7, della legge n.84 del 1994 esalta in pieno questa funzione del sano burocrate, nella mia concezione chiamato a decidere con competenza e con responsabilità, ma anche con congrui margini di scelta, quale sia l’opzione migliore per il raggiungimento degli obiettivi che la legge gli assegna.

Torna su