S’impone una svolta nel modo di organizzare il lavoro portuale, migliorarando l’esistente senza provare a copiare modelli che non ci appartengono. È questo il punto di partenza delle riflessioni del presidente di Assiterminal Luca Becce, per il quale la fase di attuazione della riforma Delrio deve trovare su questo tema così importante lo spazio che merita. «L’esperienza del pool di manodopera ad Anversa o quella della compagnia di Barcellona – spiega – sono state messe in crisi dalla legislazione europea in tema di concorrenza. Ritengo sia da conservare quanto di buono è stato fatto con la legge 84/94, che distingue e protegge molto diversamente chi si fa carico della maggior quota di flessibilità insita nel lavoro portuale – come i lavoratori a giornata (ex art. 17) – e chi invece deve assumersi totalmente il rischio di impresa (ex art. 16)».
Sono i numeri a fornirci la migliore raffigurazione di quanto è accaduto nei vent’anni di applicazione della legge istitutiva delle Autorità portuali. Fino al 2013 il totale delle sole imprese associate ad Assiterminal ha prodotto investimenti sulle concessioni per un valore di circa 910 milioni di euro. Il valore delle merci movimentato ogni anno dalle imprese portuali assomma a circa 230 miliardi di euro, realizzando un contributo al Prodotto Interno Lordo che arriva a 5,7 miliardi di euro.
Gli addetti diretti delle imprese portuali italiane autorizzate sono all’incirca 10mila mentre i fornitori di lavoro temporaneo portuale ammontano a 2.424 unità. Dati che spingono Becce a proporre una riflessione sul tema ormai ineludibile della formazione. Quale centralità nel lavoro portuale devono rivestire i processi di sviluppo organizzativo e, quindi, formativo? È possibile distinguere la funzione formativa del personale dai concessionari che per legge devono operare gli investimenti?
«La funzione formativa non può prescindere dal protagonismo delle imprese, tanto nell’esercizio quanto nella gestione» premette il presidente di Assiterminal. «A Savona, ad esempio, questo ha significato, negli anni scorsi, un significativo coinvolgimento della Compagnia Portuale Culp da parte delle imprese principali e mi risulta sia stato possibile addirittura organizzare in talune situazioni aule formative in cui siedevano sia lavoratori dell’impresa che soci della Compagnia».
Per il presidente dell’Associazione degli operatori portuali italiani si tratta di un processo positivo che favorisce una migliore integrazione tra chi fa lo stesso lavoro sulla banchina, pur con ruoli e posizioni organizzative diverse. Ma attenzione: «A Genova questo processo, pur in presenza di una crescita nella relazione tra la Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie (CULMV) e le imprese, non è mai nemmeno iniziato. A me pare invece che questa sia finalmente la strada da percorrere».
Il traguardo resta insomma quello di abbassare, fino ad abbatterli, i muri che ancora esistono tra i lavoratori, i soci delle compagnie e quelli dei terminal. «Non può restare sottotraccia che c’è già nello schema della Legge n. 84/94 una funzione regolatrice del mercato che il pubblico deve esercitare. Si deve proseguire su questa strada: rendendo non possibili interpretazioni contrastanti delle stesse norme da porto a porto e sostenendo i processi formativi dei lavoratori ex art. 17, sia con un coinvolgimento delle imprese sia attraverso la conferma strutturale (come già per l’Indennità di Mancato Avviamento) di risorse pubbliche per finanziare piani annuali di formazione».
Becce ne è convinto: «Per un miglioramento stabile del lavoro in banchina occorre lavorare a un matrimonio duraturo fra le imprese e i fornitori di lavoro. Spesso questo non è ancora possibile perché ci s’imbatte piuttosto nella reciproca difesa delle proprie identità. Si tratta in questi casi di occasioni perdute: un processo del genere saprebbe infatti “unificare i produttori” più di cento contratti o mille mediazioni».