Il sistema internazionale sta attraversando un processo di grandi cambiamenti caratterizzato da “movimenti tettonici” di natura geo-economico-politica. Due esempi: se nel 1995 la quota globale del traffico merci Europa-Asia era del 27% e quella transpacifica del 53%, dopo vent’anni anni questi numeri sono cambiati a favore dell’Europa e saliti rispettivamente al 42 e al 44%; se nel 2001 la macro-regione mediterranea assorbiva il 34% del traffico proveniente da Suez, nel 2016 questa quota è salita al 56%.
Siamo di fronte a un chiaro e strutturale riequilibrio nella geografia economica globale. Non è quindi un caso che la Cina si stia muovendo dal Pireo ai Balcani, dalla Turchia all’Algeria, dalla Spagna all’Italia con numerose acquisizioni di porti mediterranei.
Tutti questi cambiamenti sono integrati nel processo di sviluppo economico della Cina. Negli ultimi 15 anni il commercio e gli investimenti tra questa e l’Europa sono cresciuti costantemente in entrambe le direzioni, specialmente dopo gli anni della crisi.
Macchinari, trasporti, cibo e materie prime sono i principali prodotti del commercio Cina-UE (quasi il doppio in 6 anni, raggiungendo quota 550 miliardi di dollari). Pechino è così divenuto il secondo partner commerciale europeo e al tempo stesso l’UE è il primo partner cinese.
Sebbene in una posizione di deficit commerciale con la Cina, il Vecchio Continente ha registrato notevoli avanzi sia nei servizi che negli stock di investimento. Guardando nel lungo periodo, si può anche notare che, nel complesso, le esportazioni europee sono state in costante aumento e si è registrata una tendenza a riequilibrare le rispettive bilance dei pagamenti.
Se ci concentriamo sull’implementazione della BRI è chiaro che esiste ancora un potenziale enorme per gli investimenti cinesi in Europa (e viceversa) che sono differenziati geograficamente e per settore (infrastrutture, turismo, calcio, telefonia, ecc.).
Da un punto di vista cinese, gli investimenti in Europa sono generalmente finalizzati alla ricerca di know-how e all’apprendimento di nuove esperienze di gestione. La Cina si coordina per sviluppare accordi al livello di macro-aree ma anche di singoli Paesi, come dimostrato dal piano di cooperazione regionale 16+1 dell’Europa centro orientale, lanciato dal governo cinese dal 2012, o dal crescente focus strategico sul Mediterraneo.
Nel primo caso prevalgono gli investimenti nelle nuove attività produttive (filiali, nuovi impianti, ecc.) mentre nel secondo uno degli obiettivi principali è quello di acquisire asset strategici, alla luce delle politiche di privatizzazione portate avanti negli ultimi anni.
Di fronte a questo quadro, è importante porsi alcune domande: come è possibile guidare e attuare questa iniziativa mondiale? Chi e come gestire i complessi investimenti pianificati o già realizzati?
Secondo la tradizione, le autorità cinesi hanno deciso di sviluppare innanzitutto gli strumenti per sostenere i nuovi piani di investimento, dando origine a un’architettura istituzionale multilaterale strutturata.
Ad esempio vi sono banche statali, fondi e istituti di investimento che lavorano in sinergia: il Silk Road Fund (SRF) è collegato alla People’s Bank of China (PBoC), alla Export-Import Bank of China (EBC) e alla China Development Bank (CDB) e ha sviluppato sistemi di credito sovvenzionati per la BRI.
Queste società lavorano insieme alla Banca europea per gli investimenti (BEI) e rappresentano alcune delle istituzioni finanziarie dietro la Asian Investment Infrastructure Bank (AIIB). Queste banche interagiscono con altre istituzioni finanziarie come la BRICS New Development Bank (NDB) ma anche con la Banca Mondiale (WB).
È possibile affermare che un maggiore coinvolgimento nella BRI consentirebbe all’Europa di integrare risorse insufficienti a livello europeo con quelle cinesi, aumentare le esportazioni verso l’Asia, favorire lo sviluppo delle regioni più arretrate nonché garantire rapporti di reciproco vantaggio e quindi favorevoli a relazioni pacifiche.
In questo quadro l’Italia potrebbe recuperare il terreno perduto qualora fosse in grado di sviluppare piani nazionali e politiche di sistema degni di questo nome. Purtroppo i governi che finora si sono succeduti non hanno accolto la politica “espansionista” cinese con la stessa ricettività dimostrata dagli Stati africani, che hanno invece subito compreso l’importanza dell’azione strategica proposta attraverso la Belt and Road Initiative.
Se si esclude la piattaforma di Vado Ligure (per il 40% in mano ai cinesi), gli hub portuali italiani – da Genova a Livorno lungo l’arco tirrenico, da Trieste a Venezia lungo quello adriatico – non hanno ancora sviluppato un’adeguata azione logistica e infrastrutturale che consenta loro mettere a valore partnership strategiche con Pechino.
In tal senso appare significativo il caso di Livorno: lo scalo labronico riveste per gli Stati Uniti d’America una posizione strategica anche per via della presenza sul territorio della base americana di Camp Darby. L’amministrazione statunitense ha messo mano a una riorganizzazione degli accessi della base militare puntando a realizzare un nuovo troncone ferroviario di collegamento al porto e realizzando una banchina attrezzata lungo il canale dei Navicelli.
L’obiettivo è quello di garantirsi una più rapida movimentazione dei carichi di armi che arrivano e partono via mare. Questo è uno dei motivi per i quali i progetti di investimento cinesi sul territorio non hanno realmente attecchito: si è preferito mantenere il porto toscano sotto l’ala egemone di Washington, come si evince dal sostegno ai traffici militari del programma del Pentagono Maritime Security.
Occorre che l’Italia recuperi il tempo perduto e in fretta. Un’occasione in tal senso si offrirà in primavera, quando il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping verrà in visita nel nostro Paese proprio per parlare di BRI e di opportunità. Se adeguatamente intercettati, gli interessi cinesi nei nostri confronti potrebbero arrecare numerosi vantaggi.
Per alcuni porti italiani si tratta in realtà di una questione di vita o di morte: non dimentichiamo che mentre stiamo discutendo di quali risposte dare a Pechino, il porto “cinese” del Pireo sta diventando il più grande polo di transhipment del Mediterraneo e che sarà proprio con questa realtà che dovranno confrontarsi gli scali portual di Taranto, Cagliari e Gioia Tauro.