©Patrizia Lupi
Interviste

Colloquio con Roberto Piccini

In memoria di Francesco Nerli

di Redazione Port News

«Una intelligenza concreta e lucida. Un uomo che ha lasciato in eredità una visione lungimirante del mondo portuale e che ha pagato di persona gli errori della giustizia italiana».

A un anno dalla sua scomparsa, e a pochi giorni dall’evento commemorativo organizzato a Roma da www.shipmag.it, Roberto Piccini ricorda così Francesco Nerli, sindacalista della Cgil, deputato e senatore del Pci-Pds, primo presidente di un’Autorità Portuale in Italia, a Civitavecchia, poi presidente dell’AP di Napoli e di Assoporti: una vita intensa, legata al mondo della politica e a quello del lavoro. «Per coloro che come noi si sono formati nella sua scuola, Francesco Nerli era il compagno che ci precedeva nelle esperienze intellettuali e politiche, che ci mostrava in che cosa consistesse la comprensione reale del fatto storico».

Piccini piange l’amico di una vita: «Ci siamo conosciuti a Roma, sul finire degli anni 80. Ci incontravamo spesso in Via delle Botteghe Oscure, nella sede del Partito Comunista Italiano, per parlare di portualità e shipping. Durante le riunioni della Consulta Mare, organizzate dal PCI, non potevi fare a meno di osservarlo. Venivamo calamitati dal suo stile originalissimo, dalla sua parlata toscana, un po’ livornese ma con vaghi accenti della terra senese, nella quale si era radicata la sua passione per il Palio di Siena e per la contrada della Torre. Il fumo dell’onnipresente sigaro toscano ne impastava la voce, donandole una profondità quasi tattile, tridimensionale. Francesco era solito lanciarsi in un discorrere abbondante in qualsiasi direzione lo portasse l’appassionato eccitamento per le questioni che più lo accaloravano. Ma non c’era in lui alcuna traccia di quello snobismo intellettuale che allora rendeva granitiche, quasi immodificabili, le convinzioni di molti compagni di partito».

L’ex n.1 dello scalo labronico ricorda quanto Nerli provasse disgusto per l’irrazionalismo, i dogmatismi, e quanto fosse insofferente ai lati astratti della cultura portuale. Da uomo intelligente, sapeva e voleva prendersi sul serio ma lo faceva sempre con il sorriso sulle labbra, aveva una alacrità contagiosa: «Dopo le riunioni, ci trovavamo in Via Giulia, dove Franco Mariani aveva preso in affitto un appartamento e proseguivamo le nostre conversazioni davanti a una cena frugale. Il calcio, la passione per la Fiorentina, e il Palio erano argomenti ricorrenti durante i nostri confronti e fornivano un elemento di distrazione dai ragionamenti, più seri, sul lavoro e la portualità. Sebbene di rado, ci concedevamo anche qualche incursione nella vita notturna capitolina: ricordo che una volta finimmo in un bar a farci leggere i fondi del caffe da una veggente armena».

I porti erano tutta la sua vita: «Per Nerli, le Autorità Portuali avevano compiti ben precisi: da una parte dovevano sviluppare traffici e occupazione, dall’altra tutelare la concorrenza attraverso una politica concessoria non discriminatoria ed equilibrata. L’ambivalenza di questi enti un po’ pubblici un po’ privati nasce da qui, dall’esigenza di contemperare dinamismo manageriale e tutela dell’interesse pubblico».

L’ex numero uno dello scalo labronico sottolinea quanto Nerli avesse a cuore la tenuta sociale dei porti e del contratto collettivo nazionale: «Il CCNL e il modello regolatorio definito dalla legge 84/94 hanno saputo garantire per lungo tempo la pace sociale nei porti. E di questo va dato atto al coraggio e alla lungimiranza di Nerli. Ma va anche detto che Francesco non si è mai tirato indietro quando si è trattato di segnalare i punti di debolezza nell’organizzazione del lavoro e le necessità di affrontare meglio la disciplina del terzo mercato di cui all’art.17».

Il ricordo più doloroso? «Francesco ha sofferto molto per la propria vicenda giudiziaria. Lo avevano accusato di avere organizzato cene elettorali per raccogliere fondi a favore dei Ds, abusando della sua posizione di presidente dell’Autorità portuale di Napoli. Ci sono voluti otto anni per arrivare all’assoluzione. Gli hanno rovinato la vita. Questa inchiesta lo ha debilitato nella mente e, secondo me, anche nel corpo. Ho visto che nei giorni scorsi sono arrivate delle scuse a nome della magistratura. Ma si tratta, ahimé, di un riconoscimento tardivo».