Interviste

Colloquio con Gian Enzo Duci

La notte nera dei porti neri

di Marco Casale

«Un disastro per il settore portuale, e in particolare per Genova, che perde una cinghia di trasmissione importante con il Governo», il presidente di Federagenti, Gian Enzo Duci, commenta così la notizia delle dimissioni dell’esponente leghista Edoardo Rixi dal ruolo di vice ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Lo fa nell’ambito di una lunga intervista rilasciataci in esclusiva, durante la quale esamina a 360° i problemi di cui soffre il sistema paese a livello logistico e marittimo.

«Con Rixi – dichiara Duci, che è anche docente alla facoltà di economia dell’Università di Genova – avevamo a che fare con una persona preparata e competente, che aveva un’idea chiara di quale dovesse essere il percorso da intraprendere per rendere efficienti i nostri porti. E l’11 giugno prossimo, in occasione della prima Conferenza Nazionale dei Porti, avremmo potuto cominciare a fare una prima sintesi di questo ragionamento».

L’imprenditore genovese lo ammette senza girarci troppo su: «Il fatto che Rixi non sia più nel Governo crea un problema a tutta la portualità italiana. Difficile trovare all’interno della compagine governativa persone che abbiano la sua stessa professionalità. Le sue dimissioni spostano le lancette del tempo indietro di qualche anno».

E dire che le sfide da affrontare, e auspicabilmente vincere, sarebbero molte. La prima di queste ha un nome ben preciso e si chiama Via della Seta: «I cinesi hanno scommesso su di noi e sui nostri due porti, Genova e Trieste, identificandoli come terminali di sbocco verso i mercati del centro-nord Europa. Sta a noi dimostrare che abbiamo la capacità di riuscire a rispondere in tempi ragionevoli alle loro aspettative».

L’aspettativa alta, altissima, è quella di riuscire a colmare il gap infrastrutturale e logistico che ad oggi ci divide dagli scali del Northern Range, in modo tale da poter sfruttare quel vantaggio competitivo geografico dato dai 5/6 giorni di navigazione in meno di cui godono i nostri scali rispetto a Rotterdam o Anversa, tanto per citarne due.

Un detto asiatico recita che la Cina ha sempre tempo, ma il tempo non è una risorsa inesauribile.

Mentre in Italia si tentenna, la Svizzera e la Germania si muovono e pochi giorni fa hanno siglato un accordo strategico sul rafforzamento delle tratte di accesso alla Nuova Ferrovia Transalpina: «Il potenziamento da nord del Corridoio Reno-Alpi è un pericolo? No, è un dato di fatto. È chiaro che questa intesa ci danneggia. D’altra parte dobbiamo essere consapevoli del fatto che la posizione di vantaggio dei porti del Northern Range deriva in larga parte dalle nostre inefficienze».

Che cosa Duci intenda dire lo spiega subito dopo: «Abbiamo problemi di ultimo miglio, abbiamo una rete ferroviaria che per tipologia di binari, pendenza e segnalamento, non ci consente di far viaggiare treni da 750 metri e 2mila tonnellate di peso. Abbiamo problemi di spazio: a livello portuale, infatti, è difficile trovare aree disponibili in cui poter allestire questi treni».

I famigerati bottleneck di cui tanto si parla non riguardano solo gli scali marittimi: «Le cito un esempio fra tutti: sulla direttiva Genova-Milano i treni merci devono andare in coda a quelli passeggeri, senza tempi di percorrenza certi. Ecco individuato il problema per cui i nostri porti, con l’eccezione di Trieste, non riescono a inviare o ricevere via ferrovia traffico che non sia esclusivamente nazionale».

Per il numero uno della federazione che raggruppa le associazioni degli agenti e mediatori marittimi italiani bisogna passare da qui, dalla strada dell’efficientamento logistico e infrastrutturale, se si vuole dare concretezza agli accordi bilaterali di Roma sulla Belt and Road Initiative e consentire così ai porti italiani di salire sul treno cinese quando sosterà nella stazione Italia.

Le tappe che portano a Pechino sono d’altronde molteplici, e molteplici sono i mercati che diverrebbero contendibili una volta sviluppate le potenzialità del Paese. «Lungo la Via della Seta – ammette Duci – ci sono molte stazioni, non solo quella della Cina: il Kazakistan e la Turchia sono mercati altrettanto appetibili».

Ma per raggiungere l’obiettivo bisogna prima recuperare quella idea di sistema che la riforma Delrio aveva promosso e che si è persa un po’ per strada: «Il dlgs 169 del 2016 ha avuto il merito di accentrare i poteri decisori in capo a Roma e ai ministeri competenti, ma ad oggi questa riforma rimane una grande incompiuta. A due anni e mezzo della sua entrata in vigore, la Conferenza dei presidenti delle Autorità di Sistema Portuale si è riunita sì e no quattro volte, né è mai stati convocato il tavolo nazionale di partenariato della Risorsa Mare, che avrebbe dovuto promuovere un confronto di merito tra pubblico e privato».

Il numero uno di Federagenti ne è convinto: «Il centralismo non ha pagato. Bisogna rimettere mano alla legge 84/94 e risolvere alcuni problemi immediati, come quello di composizione dei comitati di gestione (che devono essere composti da persone che abbiano competenze vere nel settore) o quello di regolamentazione delle concessioni».

E a lungo termine, qual è la direzione che la nave Italia dovrebbe prendere per favorire lo sviluppo dei traffici? «La 84/94 ha secondo me un difetto di impostazione, ha uniformato le modalità di gestione del porto più importante con quello più piccolo, senza tenere conto delle peculiarità di ogni singolo scalo, né del loro raggio di azione e la riforma Delrio è andata nella stessa direzione».

Duci cita Hegel e la metafora della “notte nera delle vacche nere” con cui il filosofo tedesco liquidava nella Fenomenologia dello spirito l’Assoluto schellinghiano di identità fra idea e natura: «Nella notte nera dove tutte le vacche sono nere, tutto rischia di essere indistinto».

Ecco, i porti, rischiano di fare la fine di questi bovini: «La portualità italiana avrebbe invece bisogno di individuare, tra i porti oggi presenti, quelli realmente in grado di servire i mercati internazionali. Occorrerebbe puntare su un unico sistema portuale fatto di due scali portuali di destino, uno di transhipment, due o tre centri logistici e un aeroporto».

E gli altri scali? «Non sparirebbero dal radar, ma continuerebbero a servire i mercati regionali». Duci pensa per esempio a Venezia: «É un hub strategico e serve oggi uno dei mercati regionali più importanti d’Europa, il Veneto, ma non può e non deve competere con Trieste, che rimane invece l’unico scalo sulla sponda Adriatico in grado di puntare al potenziamento delle proprie relazioni di traffico con la Baviera».

Il presidente di Federagenti chiede a chi governa il coraggio delle scelte e auspica che la Presidenza del Consiglio si doti di un sottosegretariato con deleghe specifiche al mare («Occorrerebbe un ufficio in grado di coordinare i Ministeri presso i quali sono distribuite le varie competenze che un tempo facevano capo al Ministero della Marina Mercantile»).

L’ultimo pensiero va a Livorno: «Lo scalo labronico – afferma – sarebbe potuto diventare il primo porto d’Italia, l’asso pigliatutto, perché è l’unico oggi in grado di servire contemporaneamente le due direttrici del Brennero e del Gottardo, avendo un impianto ferroviario con le sagome corrette».

Per il docente universitario, il porto della città dei Quattro Mori ha un vantaggio competitivo che non ha saputo sfruttare al meglio. Per lo meno sino ad ora: «Invece di sviluppare una vocazione internazionale, la comunità portuale locale ha preferito litigare su tutto, contendendosi ogni pezzo di terminal oggi contendibile. La conflittualità interna ai soggetti del cluster marittimo livornese è superiore a quella di molte altre realtà portuali, compresa Genova, che pure è un porto estremamente conflittuale».

Il verdetto di Duci è impietoso: «L’autolesionismo del sistema livornese ha fatto sì che Livorno non si sia potuto affermare come competitor di livello anche nei confronti degli stessi scali portuali del Nord Europa. È un vero peccato».

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