Governo assente o distratto sui tempi della portualità? «Tutt’altro. E con la Commissione europea ha da tempo avviato una buona interlocuzione tecnica, con uno spirito di reciproca collaborazione maggiore di quanto si possa immaginare: la partita sulla possibile infrazione sui supposti aiuti di Stato alle Autorità portuali non è affatto compromessa». Davide Maresca, avvocato marittimista che vanta solidi contatti a Bruxelles e con alcuni consulenti della Struttura Tecnica di Missione del MIT, non riesce a condividere il pessimismo del professor Francesco Munari, che in una intervista a Port News aveva denunciato la miopia del Governo Conte.
«La discussione sulla natura giuridica delle AdSP – premette – non è politica ma tecnica. La giurisprudenza stabilisce che un ente sia impresa quando percepisce un corrispettivo a fronte di un servizio erogato. Ad accendere i riflettori sulla situazione dei porti italiani sono stati gli altri scali marittimi europei, che ci accusano di concorrenza sleale. Con le procedure aperte – alcune son già concluse – nei confronti di Olanda, Belgio e Francia quella che le nostre Port Authorities esercitano in materia di affidamento delle concessioni è stata da tempo classificata come attività di impresa. Tutto qui».
Come se ne esce? «Il Governo ha davanti a sé due strade. O aspetta l’eventuale decisione negativa da parte dell’Ue e la impugna davanti alla Corte di Giustizia, sapendo però che l’istituzione di Lussemburgo non fa politica ma applica il diritto». Oppure? «Oppure fa di necessità virtù e si mette a studiare assieme alla Commissione Ue una riforma che separi ciò che viene considerato attività di impresa da quanto invece non lo è. Da Bruxelles mi dicono che una soluzione simile sarebbe accettata».
Maresca non vede pertanto alcun motivo perché si debba rinunciare a priori a un serrato confronto coi funzionari di Bruxelles: «Non sono mica dei mostri. Un accordo non è impossibile, anzi. Sediamoci attorno a un tavolo, vediamo che cosa fa reddito e che cosa non lo fa e soltanto dopo tiriamo una bella linea retta. Attività come l’affidamento delle concessioni producono reddito? Mettiamole in competizione sul mercato. Quelle prettamente istituzionali, come il rilascio di una autorizzazione o le attività di controllo, rimangono invece nella sfera del pubblico? E allora non siano soggette ad alcuna imposizione fiscale».
Va insomma accettato il principio della concorrenza tra scali e se alla fine le Autorità portuali fossero costrette a pagare l’Iva sui canoni riscossi «non sarebbe una tragedia, dal momento che potrebbero detrarre i costi. Rimarrebbero comunque enti pubblici non economici ma verrebbe attuato il principio della separazione dell’attività di impresa da quella amministrativa».
Quanto a un’eventuale trasformazione in Spa delle attuali Autorità di Sistema, «non posso che essere d’accordo col professor Munari: avrebbe senso soltanto in caso di patrimonializzazione del demanio».
Sarebbe comunque logico attendersi una significativa correzione della recente riforma Delrio: «È arrugginita anzitempo. Ha soltanto accorpato alcune Autorità Portuali in modo assolutamente inefficiente. I risultati concreti si ottengono battendo altre strade». Quali? «Consentendo a qualsiasi Autorità portuale di chiedere di diventare società per azioni e di patrimonializzarsi attraverso la valorizzazione delle concessioni. Poi, chiaramente, chiunque ne faccia richiesta deve essere in grado di sostenere questo obiettivo. Ci sono infatti porti che sono più che altro a servizio del territorio e che hanno finalità di tipo perequativo: questi dovrebbero rimanere così come sono».
Quel che però conta è dare una vera chance ai pochi porti italiani che fanno competizione a livello europeo. «Sono forse cinque in tutto, localizzati nell’Alto Adriatico e nell’Alto Tirreno. A questi aggiungerei lo scalo di Napoli. Ecco, potrebbero essere questi i primi a sperimentare il modello Spa» spiega.
Al di là della natura giuridica della governance portuale, «bisognerebbe comunque investire soltanto sugli scali portuali realmente competitivi. Mi rendo però conto che si tratta di un’utopia… Significherebbe declassare molti altri porti e avremmo immediatamente la rivolta dei Sindaci delle realtà territoriali coinvolte».
Forse bisognerebbe prima di tutto lavorare sulla testa delle persone: «La prima vera rivoluzione deve essere di tipo culturale. Siamo rimasti il Paese dei campanilismi, delle ripicche, dei veti incrociati. E ovviamente della burocrazia che tutto rallenta e blocca. Ad esempio, vi sembra possibile che tuttora non esista una procedura univoca per l’assegnazione delle concessioni? Ogni realtà portuale fa caso a sé. Un regolamento unico nazionale garantirebbe agli investitori trasparenza e certezza delle regole. Se finora non è stato approvato forse è perché l’introduzione del principio della libera competizione dà parecchio fastidio a livello locale».