Interviste

Colloquio sul futuro della portualità italiana

La versione di D’Agostino

di Redazione

«In Italia dobbiamo abbandonare la monocultura del container e cominciare a focalizzarci anche sulle altre modalità di trasporto, a cominciare dai rotabili, uno dei trade su cui i porti italiani possono avere maggiori margini di sviluppo in futuro».

Ad affermarlo è Zeno D’Agostino. Raggiunto mentre si trova in aeroporto, in attesa di prendere un aereo per Bruxelles – dove lo attende l’executive committee dell’European Sea Ports Organisation, di cui è stato eletto presidente a Novembre – il n.1 dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Adriatico Orientale si lascia andare ad una riflessione a 360 gradi sull’attuale situazione congiunturale e sulle prospettive di crescita del settore.

Riprendendo un ragionamento sviluppato da Alessandro Panaro nell’ultimo report di SRM, D’Agostino rimarca come il nearshoring stia portando a una marcata regionalizzazione dei mercati e dei trasporti marittimi, rendendo strategico lo Short Sea Shipping, modalità di trasporto in cui l’Italia vanta una leadership indiscutibile.

E rispolvera un suo vecchio cavallo di battaglia: «Non fidatevi di ciò che le statistiche dicono prima di avere attentamente considerato ciò che non dicono» afferma. «Se valutassimo il sistema portuale italiano soltanto sulla base dei progressi realizzati nella movimentazione dei container, avremmo la fotografia di un paese fermo da tempo a 10/11 milioni di TEU» sottolinea, aggiungendo che «se i semirimorchi venissero conteggiati nel calcolo, sono sicuro che avremmo un quadro del tutto differente, con qualche bella sorpresa».

Quella intrapresa da D’Agostino è una battaglia di sostanza più che di forma: «Purtroppo, siamo abituati da troppo tempo a valutare il container come unico indicatore attraverso il quale misurare il livello di competitività di un porto. Lo vado dicendo da tempo, se andassimo a misurare le performance nel settore RO/RO unitamente a quelle dei container, il porto di Trieste andrebbe ben oltre il milione e due di TEU movimentanti».

D’Agostino ne è convinto: la statistica sarà pure la prima delle scienze inesatte ma i numeri, correttamente interpretati, «possono aiutare il Governo a valutare ad esempio quali debbano essere le priorità e gli asset su cui investire le risorse disponibili: la combinazione delle statistiche RO/RO, container ridefinirebbe in modo diverso la classifica dei porti italiani, facendo emergere nuove priorità».

Quel che è certo è che «i porti sono oggi qualcosa di più che non semplici hub trasportistici». Un assioma tanto più vero in una situazione congiunturale nella quale le filiere diventano sempre più corte e in cui la logistica e industria vanno integrandosi sempre di più.

«Le attività di magazzino, nelle quali si inseriscono anche quelle di manufacturing, sono sempre più integrate con quelle industriali, che a loro volta stanno diventando sempre più leggere» dice D’Agostino.

Se è vero come è vero che la regionalizzazione dei mercati sta favorendo lo spostamento delle produzioni industriali di nostro interesse sui Paesi del Maghreb e in alcune aree del Medio Oriente, allora la partita che il sistema paese deve giocare non può ridursi soltanto all’offerta di qualche banchina in più da destinare ai contenitori: «Diventa gioco forza necessario sviluppare un ragionamento di competitività che privilegi quei sistemi portuali che riescano a strutturarsi come network perfettamente integrati e duttili, in grado di puntare sullo sviluppo combinato di più modalità di trasporto, tra cui quella dello short sea shipping».

Nel lungo periodo, poi, va sviluppata una riflessione che favorisca lo sviluppo delle Zone Economiche Speciali e delle Zone Logistiche Semplificate, oltre che dei porti franchi (sulla falsa riga di Trieste), perché «la scommessa più grande è quella di riuscire a spostare sul nostro territorio le attività di nearshoring e reshoring oggi localizzate sulla sponda sud del Mediterraneo e in Turchia».

Secondo il n.1 del porto di Trieste, la progressiva integrazione tra logistica e industria pone poi lo Stato nella necessità di rafforzare il proprio ruolo di indirizzo nelle infrastrutture portuali.

D’Agostino non entra nel merito della questione dei porti spa e dei modelli di governance (argomento di cui preferisce non parlare, in attesa di un doveroso chiarimento con il Governo), ma ribadisce quello che aveva già sottolineato all’Osservatorio sulla Portualità organizzato dal periodico specializzato www.shipmag.it.

Il ragionamento di fondo è che le Autorità Portuali hanno bisogno di nuovi strumenti, e di una nuova agibilità operativa, per far fronte allo stapotere dei global carrier, che ora sono scesi anche a terra acquisendo un po’ in tutta Italia importanti partecipazioni dentro i terminal portuali.

Sono anni, ormai, che le grandi imprese statali stanno investendo in Europa, cavalcando l’onda lunga della Belt and Road Initiative.  La vicenda dell’ingresso di Cosco nel terminal Tollerort di Amburgo è sotto questo punto di vista esemplificativa: «Il terminal di Amburgo è controllato da HHLA, che a sua volta è controllato dalla città stato di Amburgo; è quindi di proprietà pubblica» dice il n.1 del porto di Trieste, aggiungendo che  «a Genova, PSA International ha realizzato investimenti importanti agendo per conto della Port Authority di Singapore. Sembra paradossale che l’Italia sia oggi l’unico paese a non poter avere una partecipazione anche minima nella proprietà delle concessioni dei porti italiani. La situazione è diventata ridicola».

Per D’Agostino si tratta di un chiaro elemento di debolezza, che gioca a sfavore della competitività del Sistema Portuale Nazionale: «Il Golden Power da solo non può consentire allo Stato di esercitare fino in fondo il ruolo di indirizzo pubblico che gli è proprio» rimarca. Per questo motivo, D’Agostino propone che per le concessioni più importanti, quelle che hanno valore internazionale (quali ad esempio la futura concessione a Livorno per la gestione della Darsena Europa), si consenta alle AdSP di acquisire una partecipazione minoritaria nella proprietà del terminal.

«La presenza pubblica nelle società concessionarie non deve essere più un tabù» afferma. «E’ questa è una delle cose di cui dovremmo parlare con il Governo Italiano».

Allo stesso modo, vanno anche affrontate altre sfide di carattere meno strutturale ma comunque fondamentali per la sopravvivenza del Sistema Paese. Quella del caro materiali è dirimente. «La situazione congiunturale negativa e il conseguente rincaro dei costi delle materie prime ha costretto molte Autorità di Sistema a rivedere i budget che il fondo complementare ha destinato alla realizzazione delle opere infrastrutturali» sottolinea d’Agostino.

«I costi delle infrastrutture sono mediamente aumentati del 40%. Occorre pertanto dialogare con Roma per valutare una rimodulazione delle risorse del Fondo. Vista l’importante vincolo del rispetto delle tempistiche per il PNRR, occorre agire subito».

D’Agostino si sta recando a Bruxelles anche per questo motivo. Il n.1 dell’Organizzazione dei Porti Europei sa bene quanto sia importante per il Paese mantenere attivo un dialogo con la Commissione Europea, se non altro per garantirsi spazi di manovra sufficienti in tema di rimodulazione degli investimenti legati al PNRR e alle tempistiche di realizzazione degli interventi.

Sa che in materia portuale, l’Unione Europea ha sempre avuto un approccio molto nord europeo, come insegna la vicenda della tassazione dei porti italiani e della rimozione dell’esenzione dall’imposta sulle società (IRES) per le Autorità di Sistema Portuali: «Per ragioni geografiche, o forse per una incapacità di dialogo, non siamo fino ad ora riusciti a spiegare a Bruxelles quale sia la specificità dei porti italiani. Nei prossimi mesi, Roma dovrà promuovere sul tema ulteriori azioni e il filtro di Espo nel dialogo con Bruxelles potrebbe essere fondamentale».

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