Ridare ai lavoratori portuali quella dignità sociale che oggi hanno in parte smarrito. Ricostituire attorno alla legge 84/94 quel nocciolo duro di valori che, soltanto trent’anni fa, teneva insieme migliaia di persone, cementificandole come una comunità sociale.
Al Cisternino di Livorno, dove ieri si è tenuto un seminario dedicato al lavoro portuale, terzo appuntamento del ciclo di convegni promosso dall’Associazione Internazionale per la Collaborazione tra porti e città (RETE), l’appello di Franco Mariani giunge forte e chiaro.
Nel descrivere i cambiamenti in atto nel settore e le tensioni oggi causate in parte dagli effetti socio-economici prodotti dal Covid 19 e dal conflitto Russo Ucraino, in parte dalle dinamiche globali concernenti il trasporto marittimo (gigantismo navale, oligopolio e integrazione verticale del terminalismo portuale), il Presidente dell’Agenzia per il lavoro Portuale di Trieste (ALPT) ha tratteggiato una figura professionale, quella del “camallo”, che oggi fa fatica a vedersi riconoscere il ruolo strategico che aveva un tempo.
«Ho cominciato ad occuparmi del lavoro portuale nel 1978, quando – all’età di 26 anni – venni nominato dai vertici del Partito Comunista responsabile politico del porto di Genova. Allora, nella città/porto simbolo di Italia c’erano 30.000 lavoratori. Tutti perfettamente riconoscibili dovunque andassero. Non solo per via del gancio che avevano al pantalone, segno distintivo della condizione di privilegio nella quale si trovavano, ma per via della piena consapevolezza del proprio ruolo».
Il camallo «era un opinion leader, una persona di cui si apprezzava l’esperienza, il colpo d’occhio e l’intelligenza pratica». Tutte caratteristiche che emergevano nei momenti di difficoltà di un lavoro cui si chiedeva anima e cervello.
«Oggi, tutto questo è cambiato – continua Mariani – è venuta meno una storia. Il lavoratore non si sente più riconosciuto. Perché oggi sono molto meno rispetto al passato. Perché i processi di automazione, unitizzazione delle merci e delle navi ne hanno svilito l’importanza strategica».
Mariani ripensa ai fatti di Trieste, alle proteste dei lavoratori contro il Green-Pass andate in scena un anno fa, e vi legge da parte dei portuali il tentativo, «maldestro e mal riuscito», di tornare ad essere protagonisti nella vita sociale. «C’è chiaramente una situazione di insofferenza legata alla soggettività del lavoro in porto. Un lavoro che, oggi come allora, è e rimane al tasso di flessibilità e che non può essere parcellizzato con precisione svizzera».
Lo dimostrano gli eventi odierni: i blocchi nei distretti produttivi della Cina per effetto dell’applicazione della politica governativa zero-Covid, la concentrazione di navi in rada ferme davanti a Shanghai, le interruzioni alla catena logistica che nel periodo pandemico, e ancora oggi, non consentono all’armatore di rispettare gli orari di partenza e arrivo di un viaggio. «Sbaglia chi dice che un porto funziona come una catena di montaggio. Le stesse dinamiche globali, quelle del gigantismo navale ad esempio, ci fanno toccare con mano quanto sia necessario avere un’organizzazione del lavoro flessibile in porto, che risponda alla necessità di concentrare in poco tempo un numero elevato di risorse umane sempre più specializzate».
La flessibilità è per Mariani un valore che non può essere spazzato via a colpi di legge. «Abbiamo visto come sia stato fortunatamente sventato, anche per effetto della sensibilità di una certa parte politica, il tentativo di consentire lo scambio di manodopera tra un terminalista e un altro» dice il presidente dell’ALPT, riferendosi al ddl Concorrenza e alla riformulazione dell’art.3, da cui è stata oggi espunta la previsione del passaggio di lavoratori da un’area demaniale ad un’altra.
Il ruolo che la politica e i sindacati devono esercitare è proprio questo: «Costruire tutte le garanzie perché il lavoro flessibile trovi un riferimento salariale, normativo, che assicuri una correttezza nei rapporti. Questo è il fulcro su cui dobbiamo insistere».
Mariani sottolinea, invece, come oggi si stiano moltiplicando i tentativi di demolire un’impalcatura, quella ispirata alla legge 84/94, che è stata costruita nel tempo, grazie a un percorso parlamentare che ha richiesto anni di lavoro in parlamento, anni di dialogo.
Si tratta di un modello che «ambivamo ad esportare anche nel settore aeroportuale, dove convivono decine di contratti diversi, o in quello della logistica». Si tratta di un sistema di equilibri e garanzie «che oggi viene messo sotto pressione da una serie di attacchi mirati».
Se il Ddl Concorrenza, con le sue modifiche all’art.18, ha costituito, e costituisce ancora oggi, un motivo di preoccupazione per chiunque tema ripercussioni per la tenuta degli equilibri in porto (il riferimento all’art.18, comma 7, e alla previsione del cumulo di concessioni per i porti internazionali e nazionali, non è casuale), l’autoproduzione continua ad essere, per Mariani, una vera spina nel fianco: «C’è la volontà dell’armatore di proporsi come soggetto che non guarda in faccia nessuno, che ambisce a gestirsi il lavoro con i propri marittimi».
Per il n.1 dell’ALPT, va combattuto con determinazione chiunque voglia operare al di fuori delle regole: «La trasparenza – dice – si comincia a misurarla dal lavoro. Che deve essere non soltanto fattore di competizione tra diverse imprese ma fattore di crescita, di sviluppo professionale. I porti, è bene ribadirlo, sono aperti, aperti alle imprese e al lavoro, ma sono anche regolati. E il sistema di regole deve essere tutelato».