Interventi

Governance delle banchine

Le Autorità portuali diventino un ente pubblico economico

di Pietro Spirito

Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centrale

La riforma Delrio ha delineato un modello di governance dei porti nazionali che ha consentito di superare alcune delle criticità che avevano contribuito a rallentare la competitività dei scali marittimi italiani.

Innanzitutto è stato superato l’equivoco primario di far sedere nel luogo decisionale i portatori di interesse economico: la rappresentanza dei concessionari all’interno dei Comitati Portuali aveva determinato uno snaturamento nella formazione delle volontà, in quanto si era generato un conflitto tra valore pubblico e vantaggi privati nelle decisioni che venivano assunte. L’obiettivo di ripristinare una separazione indispensabile tra questi due livelli è stato quindi raggiunto.

Non si è persa nemmeno la capacità di coinvolgere i privati nel processo di formazione delle scelte, con la decisione di istituire l’Organismo di Partenariato della Risorsa Mare, inteso come luogo di confronto e di discussione prima di definire gli orientamenti e le scelte. Su questo punto occorre ancora lavorare per migliorare l’efficacia del nuovo organismo: non esiste ancora in Italia una cultura della partecipazione responsabile.

Con le modifiche apportate alla Legge n. 84/94 il legislatore ha inoltre provato a riportare elementi di politica nazionale nelle scelte strategiche, prima con la approvazione del Piano Strategico Nazionale della Portualità e della Logistica e poi con l’istituzione della Conferenza Nazionale dei Presidenti delle AdSP, presieduta dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Sulla carta questo raccordo di politica nazionale è indispensabile. Per due ragioni. Innanzitutto per evitare la duplicazione degli investimenti e garantire la coerenza nelle scelte di posizionamento strategico della portualità italiana. In secondo luogo per elaborare in modo più efficace le scelte che devono essere poi riportate verso le istituzioni comunitarie, che costituiscono un fronte di influenza sempre più decisivo sulle scelte strategiche di politica marittima e portuale su scala sovranazionale.

Se è vero che la Conferenza Nazionale muove ancora i suoli primi passi – non essendosi riunita con regolarità e non avendo ancora tracciato un suo iter di funzionamento operativo capace di tracciare una rotta coerente – è altrettanto certo che il recente avvio della istruttoria comunitaria sulla tassazione delle AdSP costituisce una occasione per cominciare ad avviare una discussione più consapevole su quali possano essere gli spazi di manovra del coordinamento nazionale.

Le prime reazioni, anche motivatamente, sono state più di pancia che di testa. La comunicazione della Commissione è giunta in un periodo di vacatio del Governo nazionale, nella fase della campagna elettorale e delle votazioni per la elezione del nuovo Parlamento. Non era quello certamente il momento più adatto per avviare una analisi e una discussione su un tema così delicato. È sembrato quasi che la Commissione intendesse lanciare un segnale in un periodo di inevitabile incertezza istituzionale del nostro Paese.

Ora che questa fase è trascorsa, è giunto il momento di cominciare a riflettere a mente fredda. Con la sua lettera di richiesta di chiarimenti, la Commissione non ha fatto che ribadire un orientamento ormai profondamente radicato: i porti svolgono una attività economica, e, prescindendo dalla loro forma giuridica, devono essere sottoposti a tassazione. Su questo fronte i Governi italiani che si sono succeduti nel tempo non hanno mai contrastato questo orientamento europeo, che si è ormai radicato.

Rispondere alla Commissione che la configurazione delle AdSP italiane sta nel perimetro giuridico pubblicistico e segue il modello istituzionale dell’ente pubblico non economico non serve però assolutamente a nulla. Ne sono perfettamente consapevoli le stesse istituzioni comunitarie che, ovviamente, lo riconoscono senza alcuna difficoltà. Vale la pena piuttosto di interrogarsi su un altro punto, che viene messo in ombra dalla Commissione. Siamo davvero sicuri che tutti i porti europei siano in concorrenza tra loro?

Questa affermazione, implicita nella argomentazione delle istituzioni comunitarie, è molto più discutibile. Se si escludono gli scali con funzioni di transhipment, ciascun porto possiede geograficamente una propria catchment area, con uno specifico mercato industriale e turistico di riferimento.

Sono estremamente marginali i casi di riorientamento dei flussi logistici secondo itinerari di convenienza diversi dalla catchment area, utilizzando altri porti per ragioni di convenienza economica o funzionale.

Se, come pare largamente dimostrabile, i porti europei non sono tutti in concorrenza tra loro, ne scaturiscono una serie di considerazioni. Vanno individuati cluster omogenei di porti, dal punto di vista dimensionale e territoriale, che siano comparabili tra loro per mercato servito. Solo all’interno di ciascun cluster si potrà poi applicare il principio della concorrenza tra scali.

Occorre poi aprire una discussione sulla forma giuridica delle AdSP. Siamo proprio certi che mantenere l’assetto dell’ente pubblico non economico sia la scelta più adeguata per assicurare la necessaria competitività e flessibilità nella governance delle Autorità di Sistema Portuale?

A me non sembra. Oggi rischiamo solo di subire due concentrici effetti negativi.

Da un lato dobbiamo operare secondo criteri pubblicisti per la normativa nazionale, e quindi siamo soggetti a vincoli che rallentano la nostra capacità di operare scelte con responsabilità e con tempestività. Sappiamo tutti noi cosa significa applicare il codice dei contratti pubblici per realizzare le opere infrastrutturali, oppure affidare per gara la gestione delle banchine.

Nel causidico mondo della legislazione e della giurisdizione nazionale passiamo il nostro tempo più sulle procedure che sui contenuti, più sui ricorsi davanti ai giudici che sulle realizzazioni.

Dall’altro lato, per effetto della normativa comunitaria siamo gestori di attività economica: quindi soggetti non solo alla tassazione ma, per una svista delle istituzioni europee, anche alle regole della concorrenza. Su questo punto andrebbe effettuato un approfondimento con la Commissione per comprendere i limiti di applicabilità di una simile impostazione alle infrastrutture, che sono più che altro un monopolio naturale.

Varrebbe allora la pena di interrogarsi su quali profili di forma giuridica sarebbe opportuno orientare la cornice istituzionale delle AdSP.

Non mi convince la formula della società per azioni. Le Autorità di Sistema svolgono anche ruoli di natura pubblicistica che è opportuno mantenere: pensiamo al potere di ordinanza per la tutela dell’interesse pubblico, quando si devono ad esempio revocare o sospendere concessioni per consentire la realizzazione di opere infrastrutturali di capitale importanza. Con la forma della società per azioni questo importante strumento di intervento non sarebbe più utilizzabile, limitando per questa via l’operatività del sistema portuale.

Più adatta appare invece la veste giuridica dell’ente pubblico economico, che contempera al tempo stesso da un lato l’esigenza di operare con flessibilità e senza lacciuoli le scelte economiche necessarie e dall’altro il mantenimento di poteri pubblicistici che sono necessari a dare ordine in un sistema che richiede l’esercizio di un potere sovraordinato rispetto ai concessionari.

Una discussione su questi temi appare non solo matura ma necessaria, per evitare che una riforma positiva come quella Delrio perda di efficacia, mantenendo per le AdSP una forma giuridica troppo sbilanciata in senso pubblicistico, che ne depotenzia la capacità operativa e che pone i nostri porti in una condizione di minorità operativa rispetto alla portualità del Nord Europa.

Non esprimo certezze su temi che sono certamente delicati e complessi. Questo contributo intende essere soltanto l’apertura di un’analisi che deve essere svolta sine ira ac studio, con una modalità che guardi innanzitutto all’interesse primario di dotare l’Italia di un sistema portuale maggiormente competitivo nell’interesse del Paese, dell’industria marittima, dello sviluppo turistico, dell’economia nel suo insieme.

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