Vi ricordate l’alleanza dei porti statunitensi contro la minaccia del gigantismo navale? Ditele addio.
Se prima gli operatori portuali americani avevano l’orticaria anche soltanto a sentire parlare di navi “ultra-large”, oggi hanno cambiato radicalmente idea.
Lo dimostrano i festeggiamenti con cui la scorsa settimana è stata accolta a Los Angeles la MSC Eloane, una nave da 19.500 TEU che, dopo aver fatto scalo presso il porto della città degli angeli, ha diretto la prua verso Long Beach, dove ha scaricato la merce restante sulla banchina del terminal di proprietà della MSC, il Total Terminals International Dock.
La Eloane, regolarmente impiegata nei collegamenti tra l’Asia e l’Europa, è la più grande containership ad aver mai toccato un porto americano. È stato infatti battuto il record dei 17.800 TEU raggiunto nel 2015 con la Benjamin Franklin della CMA CGM.
Si tratta di una novità assoluta, anche se non si sa nulla delle motivazioni che avrebbero spinto il liner ginevrino a impiegare una sua unità di grandi dimensioni per i servizi transpacifici.
Secondo diversi analisti, l’incursione di questa maxi nave nell’oceano Pacifico obbedirebbe a una nuova strategia che l’alleanza 2M (MSC e Maersk) starebbe mettendo in campo come risposta ai problemi di sovraccapacità che si registrano sulla tratta che collega i mercati asiatici a quelli del Vecchio Continente.
Difficile dirlo. L’upgrade della capacità potrebbe però essere dettato dalla necessità di trovare un opportuno impiego per le navi ordinate anni fa ed entrate in circolazione negli ultimi mesi.
L’effetto a cascata imposto dal gigantismo navale prosegue infatti inesorabilmente e navi di portata compresa nella fascia tra i 14.00 e i 16.000 TEU rischiano di essere già oggi troppo piccole per il trade Asia–Europa.
Certo, l’America è grande e a soffrire gli effetti determinati dalla immissione sul mercato dei vessel extra-large sono più che altro i porti della costa orientale, che non hanno le infrastrutture adatte.
Long Beach e Los Angeles rappresentano invece una eccezione: insieme movimentano circa 20 milioni di contenitori, e hanno fondali ed equipment a prova di quasi tutti i giganti del mare.
Ma c’è da scommetterci: la crescita dimensionale delle navi portacontainer potrebbe rappresentare un problema anche per chi pare attrezzato a ogni tipo di difficoltà.
La Eloane, infatti, non è solo la nave più grande che abbia mai fatto scalo in un porto della West Coast americana, ma è anche la più larga: 58,8 metri.
«Sono queste le misure che mettono maggiormente sotto stress le banchine – afferma Diego Moscati, manager di Evergreen presso Italia Marittima -, non basta la profondità necessaria, ma devono esserci gru in grado di gestire l’altezza massima dei tiri in coperta e sbracciare sino all’ultima row. La rapida crescita delle navi sta facendo invecchiare l’equipment di un terminal a un ritmo che non si è mai visto prima».
Da non sottovalutare, inoltre, il fatto che navi di questo tipo monopolizzano la banchina per giorni, riversando in una sola giornata quantità molto grandi di container.
Se tra l’Asia e l’Europa i porti toccati da una stessa nave sono molteplici, nel traffico transpacifico i liner preferiscono scalare infatti soltanto pochi selezionati scali portuali, trascurandone altri sia pure significativi (come Seattle, Tacoma, Vancouver e Prince Rupert, che vengono serviti con un numero limitato di servizi complementari).
É questo il motivo per cui i due porti californiani si trovano in una situazione di forte congestione operativa.
La nave della MSC è per altro rimasta a Los Angeles per cinque giorni prima di fare tappa verso il vicino scalo di Long Beach.
«Il Pier 400 di Los Angeles ha una capacità ricettiva eccezionale ed è in grado di ormeggiare più navi di grandi dimensioni alla volta. Ma poniamo che il livello di traffico aumenti al punto tale da congestionare il porto: quale armatore sarebbe disposto a tenere la propria nave in rada in attesa che si liberino gli spazi necessari a banchina?» si domanda Moscati.
La verità è che i terminal oggi in grado di ospitare contemporaneamente più navi da 400 metri alla volta non sono poi molti. Forse si contano sulle dita della mano: «Ricordiamoci che il waiting time per l’ormeggio è un problema molto sentito dai carrier proprio perché navi simili hanno un costo giornaliero elevatissimo e più restano ferme più bruciano soldi».
Per l’esperto manager le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: «Esiste la possibilità che si rafforzi sempre di più l’orientamento ad avere terminal esclusivi e di proprietà dei carrier e dei membri delle singole grandi alleanze. Non a caso, la società terminalistica che a Los Angeles ha gestito il carico Eloane è della APMT (Gruppo Maersk, seppur formalmente separato dall’attività di shipping) e quella di Long Beach vede il coinvolgimento di TIL (Gruppo MSC, seppur formalmente separato dall’attività di shipping».
Il sovrautilizzo delle banchine e dei piazzali portuali non rappresenta però l’unico problema. Questi giganti del mare mettono sotto pressione anche la rete viaria nazionale e tutti gli snodi intermodali.
A Los Angeles non è la prima volta che sulle strade si creano ingorghi a causa dei numerosi camion che dal porto vanno a raggiungere i vari punti di distribuzione, e volumi consistenti di contenitori vengono movimentati anche su rotaia, attraverso la tratta che dalla California va sino a Chicago e anche oltre, verso le destinazioni della Ohio Valley.
La massimizzazione del coordinamento fra tutti gli attori della supply chain diventerà per i porti statunitensi una delle più importanti sfide da vincere nei prossimi anni.
Ma non sarà facile evitare i colli di bottiglia che si verranno a creare a causa della crescita dei volumi di mercato.
Intanto, ciò che preoccupa di più gli operatori per l’immediato è il crescente disavanzo commerciale di cui pare soffrire il Paese.
Mentre negli ultimi sette anni l’import è cresciuto di oltre il 30%, passando dagli 1,2 milioni di TEU mensili del 2012 agli 1,9 mln di TEU di quest’anno, l’export è rimasto fermo a un valore di 700 mila TEU al mese.
L’imbalance non è una buona cosa, soprattutto per gli ocean carrier che per il viaggio di ritorno, dagli Usa all’Asia, si trovano costretti a riempire le proprie navi di container vuoti.
Non a caso, i noli container relativi ai contratti di trasporto sulle rotte transpacifiche in eastbound valgono molto di più di quelli in westbound.
L’anno scorso il traffico da est verso ovest ha toccato il picco dei 2600 dollari per container da 40 piedi contro i 600 dollari a FEU (Forty Equivalent Unit) toccati nella direzione opposta.