Si ha un bel parlare in questi giorni dell’Autoproduzione e dell’art.18, comma 7, che stabilisce il divieto di doppia concessione per lo svolgimento nel medesimo porto di una stessa attività merceologica.
Le riflessioni di autorevoli e qualificati esperti del settore (si vedano le interviste a Gaudenzio Parenti e ad Alessandro Ferrari), ispirate dall’imminente licenziamento del Decreto Concorrenza, sono sicuramente meritevoli di attenzione e toccano questioni che, ne siamo sicuri, vanno ad incidere sulla pelle viva dell’efficienza operativa ed organizzativa della macchina portuale.
Permettere infatti ad un vettore marittimo di utilizzare, senza vincoli, il proprio personale di bordo per lo svolgimento delle operazioni non è questione di poco conto, così come non è irrilevante, ai fini di un ragionamento sulla prevenzione delle posizioni di abuso dominante, valutare se un concessionario possa o meno chiedere un’altra concessione per movimentare lo stesso tipo di merce.
Ma la domanda che sorge spontanea è se siano questi i temi centrali della vera Riforma cui il Ministero delle Infrastrutture e delle Mobilità Sostenibili dovrebbe mettere mano.
E’ oggi conclamato quanto le AdSP siano e restino un ibrido, con uno sbilanciamento in negativo. Chi scrive ricorda le parole utilizzate da Massimo Provinciali in una non recentissimo intervento pubblicato su Port News: «Del pubblico – diceva – hanno gli oneri del d.lgs n.165/2001 per il personale, i vincoli del codice appalti e il fitto sistema dei controlli», mentre «del privato rischiano di avere l’obbligo di pagare le tasse su introiti che non sono utili ma denaro pubblico, non avendo però semplicità di azione nell’affidare la realizzazione di un’opera».
Ecco, l’esigenza spesso avvertita come più pressante da parte di chi vive veramente i porti, lavorandoci ogni giorno, è sempre stata quella di fare delle Autorità Portuali soggetti in grado di utilizzare le caratteristiche più virtuose di ciascuna delle due componenti, pubblica e privata, anziché quelle più deleterie.
Come più volte affermato dal professor Maurizio Maresca, siamo entrati in un’epoca di forte competizione globale che gli Stati devono essere in grado di affrontare con strumenti nuovi.
Da un lato, infatti, essi sono chiamati a rafforzare la competitività dei loro sistemi infrastrutturali non limitandosi alla mera amministrazione pubblica e alla regolazione, non escludendo cioè ove necessario il coinvolgimento nell’impresa.
Dall’altro sono chiamati a difendersi evitando che imprese pubbliche straniere veicolino la sovranità dei loro Paesi di appartenenza creando un pregiudizio all’interesse nazionale.
A fianco delle inevitabili misure in materia di concorrenza il Governo dovrebbe insomma studiare opportune misure di politica dei trasporti che consentano l’attuazione dello spazio unico europeo della mobilità e la crescita economica.
I punti sono essenzialmente due. Il primo è dato dalla necessità di favorire un reale coordinamento fra i porti, retroporti e inland terminal, permettendo allo Stato di scegliere dove investire e quali eventuali alleanze selezionare. Da questo punto di vista – così come consentito dalle norme in materie di Aiuti di Stato – non andrebbero escluse misure di segno fiscale per incentivare gli investimenti industriali e logistici funzionali alla realizzazione dei tre corridoi verticali: Gottardo/Sempione, Brennero, Tarvisio/Koralm.
Il dlgs n.169 del 2016 già oggi ha posto nelle mani del Ministero delle Infrastrutture questi poteri di indirizzo. Si tratta adesso di individuare gli strumenti operativi idonei.
In secondo luogo, così come peraltro recentemente scritto da Simone Gallotti su il Secolo XIX, bisognerebbe consentire alle AdSP di svolgere attività di impresa sia pure nel solco della loro natura pubblicistica.
Pur restando enti pubblici non economici tenuti alla pubblica amministrazione, le AdSP potrebbero insomma svolgere un’attività imprenditoriale nel caso di servizi di interesse economico generale e quando risulti utile e voluto dal Governo per tutelare l’interesse nazionale.
Il caso Trieste è da questo punto di vista assai emblematico: l’AdSP controlla societariamente tutti i terminal retro portuali e sta rafforzando la sua rete in Italia e all’estero .
Com’è possibile che in Italia soggetti pubblici come la PSA di Singapore, HHLA di Amburgo, l’Adria Port ungherese e la Cosco cinese – tutte imprese controllate da Stati stranieri e veicoli della sovranità di tali Stati – possano gestire importanti terminal nazionali mentre le Autorità italiane non possano fare altrettanto nei propri porti?
È vero che in genere la presenza del pubblico nell’impresa si risolve non di rado nella creazione di imprese incapaci di stare sul mercato, buone soltanto a garantire nei cda posti ben pagati a politici e clientele, ma questo si verifica molto di più in ambito locale mentre l’azione del Governo presenta in genere connotati diversi. Una simile “riforma” permetterebbe alle AdSP di operare, con flessibilità e senza lacciuoli, le scelte economiche necessarie, pur mantenendo poteri pubblicistici che sono necessari a dare ordine in un sistema che richiede un potere sovraordinato rispetto ai concessionari.
Poteri rafforzati di coordinamento nazionale dei porti in capo al Ministero ma più attività di impresa. Sono insomma queste le leve che il Governo potrebbe mettere a disposizione del Sistema Portuale nazionale per fargli fare quella evoluzione che in molti auspicano da tempo.
Come ribadito in diverse interviste e interventi da Pietro Spirito, ex presidente dell’AdSP del Mar Tirreno Centrale e pensatore radicalmente lungimirante nel nostro settore, le Port Authority, abbandonate a se stesse, in balia delle tempeste di mercato e arroccate in un rigido formalismo burocratico, rischiano di finire nella trappola dell’amministrazione passiva, perdendo la propria capacità operativa.
Una discussione su questi temi appare allora non solo matura ma necessaria, per evitare che una riforma positiva, come quella Delrio, perda progressivamente ma inevitabilmente di efficacia.