Porto Livorno - Pilotina
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Interviste

Colloquio con Vincenzo Bellomo

Licenza di pilotaggio, strumento datato ma all’avanguardia

di Marco Casale

«Il nostro ordinamento non necessita di sconvolgimenti» obietta il capitano Vincenzo Bellomo, in forza alla Corporazione Piloti di Taranto, che lo scorso 7 maggio è stato eletto presidente nazionale dell’Unione Piloti. A far storcere il naso all’organizzazione è la stesura di un decreto interdirigenziale contenente le “Linee guida per la formazione e la certificazione dei piloti dei porti”.

Ai piloti non piace che il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e il Comando generale delle Capitanerie di porto sembrino infatti orientati a recepire le raccomandazioni contenute nella Risoluzione A.960 (23) della International Maritime Organization (IMO). «Siamo contrari al tentativo di subordinare a quest’ultima il nostro Codice della navigazione e il relativo regolamento. Anche se datate, le sue norme disciplinano pienamente e in modo dettagliato l’iter per la formazione e il rilascio della licenza definitiva del pilota di porto. Peraltro la Risoluzione IMO si propone di sopperire in ambito internazionale alle eventuali carenze legislative di alcuni Stati, il tutto per dare un minimo di garanzia ai fruitori del servizio sulla formazione dei piloti che salgono a bordo delle navi. Non è il caso dell’Italia, fortunatamente».

Per Bellomo il punto più controverso del decreto in discussione è quello che introduce un nuovo specifico certificato IMO: «Nei fatti andrebbe a surrogare la licenza di pilota rilasciata oggi dall’Autorità marittima. Si affermerebbe in sostanza una deriva privatistica del servizio di pilotaggio, che invece deve continuare a conservare la sua unicità pubblicistica e di servizio di interesse generale».

In che senso? «La scelta tra certificato o licenza costituisce in realtà la collocazione e la valenza giuridica che si vuole dare alla natura del servizio. Il pilota esercita in virtù della “licenza” rilasciatagli da un’Autorità amministrativa. Non è il “certificato” a individuare e definire il pilota ma lo Stato, che attraverso il rilascio della licenza diventa anche garante della preparazione dello stesso. Inoltre il Regolamento UE 2017/352 in materia di fornitura di servizi portuali esclude dalla liberalizzazione il servizio di pilotaggio. Da qui la nostra perplessità verso un percorso che ci appare controcorrente».

Un altro aspetto che non convince Bellomo è l’obbligo di effettuare taluni corsi di formazione. «Molti di questi – spiega – vengono già seguiti per accedere al concorso da pilota. Ad esempio quello sull’uso operativo dei sistemi di informazione e visualizzazione della cartografia elettronica (Electronic Chart Display and Information System – ECDIS). E qualora non fosse stato effettuato, non comprendiamo  quale qualificazione possa dare in più per lo svolgimento della professione. Il pilota viene da sempre considerato una sorta di “carta parlante” poiché nel suo lavoro si affida alle sue consolidate conoscenze degli elementi atmosferici e fisici del porto (maree, venti, correnti, fondali e secche). Per questo trovo che una simile proposta sia difficilmente condivisibile se non imbarazzante».

Un altro corso di formazione riguarda invece la manovra con l’utilizzo del simulatore. «Qui bisogna fare qualche distinzione. Il pilota opera quotidianamente nel porto di competenza per il quale gli è stata rilasciata la licenza. In un anno compie in media più di 600 manovre, ognuna diversa dall’altra e nelle condizioni meteomarine più disparate». Conoscendo già alla perfezione ogni singola e più nascosta caratteristica del porto, la sua esperienza è fuori discussione. «Le simulazioni di manovra non devono quindi essere intese come uno strumento che gli insegni a suggerire la manovra più adatta anche in situazioni di emergenza. Per favorire un aumento del nostro bagaglio professionale, l’Unione Piloti ha invece proposto e ottenuto forme di interscambio professionale tra piloti di porti differenti al fine di poter condividere comportamenti ed esperienze diverse».

Bellomo è peraltro scettico anche sull’effettiva utilità del corso di lingua inglese. «Quello che parliamo a bordo è una sorta di gergo tecnico. Spesso dobbiamo comunicare con operatori poco o nulla abituati a parlare lingue diverse da quella madre. Da qui la necessità di usare espressioni semplici, brevi e che sono standard. Il suo compito è quello di mettere a suo agio il comandante della nave, alleggerendo per quanto possibile lo stress della manovra. Il pilota non è uno scrittore che deve dare alle stampe un romanzo».

Sarà pure, ma con tutte queste obiezioni ricordate il personaggio di un grande scrittore di mare come Herman Melville: lo scrivano Bartleby, che a ogni richiesta del suo superiore rispondeva “Preferisco di no”… «Mica vero. Ci convincono ad esempio il corso sulla sicurezza (siamo i primi a salire su una nave e gli ultimi a scendere) e per operatore di batimetria: per noi è fondamentale conoscere la morfologia e i rilievi del fondale marino, le cave e più in generale tutto quello che è presente sotto il livello del mare».

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