Recenti fatti di cronaca hanno prepotentemente riacceso il dibattito sull’opportunità o meno di consentire in via sistematica l’esercizio dell’autoproduzione nell’ambito delle operazioni portuali.
Se da una parte l’Autorità Garante del Mercato e della Concorrenza ha invitato il Governo ad eliminare la norma che limita il diritto al selfhandling per sostenere la competitività dei porti italiana, dall’altra il fronte sindacale si è dichiarato pronto a salire sulle barricate se in sede di Decreto Concorrenza dovesse essere consentito all’armatore di fare anche l’art.16, ovvero di caricare/scaricare; rizzare/derizzare la merce con i propri marittimi.
Le motivazioni che sostengono il fronte del Sì sono note. «La riduzione dei costi e la flessibilità gestionale del processo garantirebbero all’armatore indubbi benefici» afferma a Port News, Giovanni Civran, responsabile safety dell’Autorità di Sistema Portuale del mar Adriatico Orientale. «Il personale imbarcato, oltre a costare meno delle maestranze dei porti italiani, è già pagato, non deve essere avviato per lo svolgimento delle operazioni presso la banchina di ormeggio e, distolto dalle attività regolarmente condotte in navigazione, può essere impiegato in quelle di manipolazione delle merci nel diaframma nave-terra e viceversa».
I vantaggi all’autoproduzione – per pochi – sempre per Quelli, certamente ci sono. Ma sono vantaggi miopi o duraturi? Giovanni Civran prova a sviluppare un’analisi obiettiva, sganciandola da preconcetti ideologici.
Interferenza
La domanda di fondo cui occorrerebbe innanzitutto tentare di dare una risposta è quali segmenti del ciclo operativo portuale (definito come carico / scarico / trasbordo, movimentazione a piazzale e deposito delle merci) possano essere affidati al personale di bordo.
«A meno che non si pensi alla presenza di un esercito di marittimi a bordo di ogni unità mercantile e al completo vuotamento dei terminal portuali affinché questi vengano popolati a ogni arrivo nave dal personale marittimo, è evidente che l’intero ciclo operativo non può essere affidato interamente al personale di bordo» afferma Civran. «Ciò implica quindi non l’azzeramento delle interferenze, ma lo spostamento della linea di confine delle interferenze da un fulcro unico – la nave – a una linea di tiro ben maggiore: la nave, la banchina, il terminal».
Ragionando sulla possibilità di affidare al personale di bordo l’esecuzione solo di taluni servizi o segmenti di ciclo operativo, il problema non troverebbe soluzione. «Da chi sarebbe governata la presenza attiva di personale esterno che verrebbe a operare all’interno di un ciclo di attività comandato dal Terminal e dalle eventuali imprese affidatarie di segmenti specialistici? E a chi spetterebbe l’onere di ricoprire le evidenti e ineluttabili posizioni di garanzia sotto il profilo della sicurezza, dell’ambiente e anche dei risultati della produzione?» si domanda Civran, per il quale il governo delle interferenze già allo stato attuale costituisce, nell’ambito dell’esercizio del governo di un Terminal portuale e di un cluster portuale nel suo insieme, una sfida continua, che richiede costanza di presenza da parte di coloro che assumono ruolo di Preposti e di Dirigenti per le Imprese di riferimento e – in generale – dedizione completa da parte di tutti gli stekeholder del sistema.
«Reggere l’urto dell’interferenzialità all’interno dei porti e dei terminal è difficile, ma è possibile solo applicando e continuando ad applicare alcuni presupposti strutturali dell’organizzazione delle operazioni portuali, quale il divieto all’autoproduzione, fatta salva l’autorizzazione alla stessa nelle more di cui all’Art 8 del DM 585/1995 per eventi di eccezionalità e di peculiarità tali che consentano appunto la gestione dell’eccezione e non il trapasso incontrollato della barriera osmotica di quell’insieme prezioso di regole che ci siamo dati nella gestione della valicazione sia concettuale e sia sostanziale del diaframma di banchina» afferma il funzionario dell’AdSP Triestina.
Comunicazione
Altro tema è quello della comunicazione. La lingua parlata, che pure rimane un tema centrale nell’arte di coordinare le maestranze da parte dei capi navi e dei responsabili dei terminal, non è il solo limite nella comunicazione, specialmente nell’ipotesi di consegne simultanee tra squadre di lavoratori marittimi stranieri e lavoratori dei porti. «Vi è qualcosa di più legato al contesto, al luogo di lavoro, alle attrezzature di lavoro di cui si dispone, alle modalità di governo dei flussi all’interno del singolo terminal a fare la differenza». dice Civran.
Dove deve essere posizionato il contenitore? A che altezza va tenuta la cassa per essere posizionata sul pianale? Come devono disporsi i lavoratori e quali attrezzature devono essere prelevate per utilizzare il gruppo di sollevamento idoneo per quello specifico collo considerando non solo la presa e sollevamento, ma anche il rilascio a deposito dello stesso? «Questo trasferimento di informazioni avviene ogni giorno nei briefing mattutini e a tutti i cambi turno dei Lavoratori delle imprese portuali nell’interfaccia con le imprese terminaliste. E a livello macro sono il contenuto di anni di addestramento sul campo e sotto il profilo normativo della formazione specialistica resa ai lavoratori nelle ulteriori 4, 8 o 12 ore di formazione prevista dall’Accordo Stato Regioni del 21/12/2011. Come può essere trasferito questo bagaglio di notizie in tempo reale a una squadra di lavoratori esterni – internazionali – che entra a gamba tesa in tale sistema complesso – locale?».
Competenza
Quello della competenza è termine olistico che comprende formazione, addestramento, curriculum, abilità, consapevolezza di ruolo, responsabilità di risultato e di funzione.
«Le competenze effettive di una singola maestranza definiscono il valore della risorsa stessa. Tale valore è economico, sociale, organizzativo, di produzione» dice Civran. «Se le competenze del personale di terra sono note al terminalista e quelle delle eventuali imprese appaltatrici sono desumibili durante le verifiche ispettive interne e definibili in sede di sottoscrizione dei contratti di appalto e sono tenute sotto controllo dalle Autorità di Sistema Portuale attraverso l’analisi del Piano dell’Organico dei Porti, come possono essere altrettanto note e desumibili le competenze del personale di bordo? Quali sono le caratteristiche personali e curriculari necessarie per lavorare in ogni contesto portuale e terminalistico?».
Il responsabile safety dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Adriatico Orientale rimane sgomento al pensiero che si torni nuovamente a parlare di liberalizzazione dell’autoproduzione «mentre da almeno 15 anni è in atto a livello europeo un sistematico intervento normativo volto al riconoscimento della specializzazione professionale dei singoli Lavoratori dell’Unione mediante un processo di crescente dettaglio nell’individuazione e valorizzazione delle competenze professionali esistenti».
Un processo che «sta portando a definire chi può e non può svolgere una determinata attività di lavoro in uno specifico ambiente di lavoro già a partire dal possesso o meno di un determinato pacchetto di competenze curriculari e di qualifiche “certificate”. Nessun operatore privo del “Patentino di carrellista” ex Accordo Stato Regioni del 22/02/2012 può oggi sognarsi di salire a bordo di un carrello elevatore, nessun manutentore privo della qualifica di PES ai sensi della norma CEI 11-27 può pensare di mettere le mani su un impianto elettrico. Nessun lavoratore non appartenente a un’impresa autorizzata ai sensi dell’Articolo 16 o 17 della L. 84/1994 può accedere a bordo nave o in banchina per partecipare a una singola fase o attività prevista da un segmento di ciclo operativo portuale».
Garanzia
L’insieme dei tre temi affrontati converge infine sul tema fondamentale delle garanzie. «I Preposti, così come definiti dall’Art. 19 del D.Lgs. 81/2008 sono in posizione di garanzia rispetto alla squadra di lavoratori loro affidati. E così lo è il Dirigente ai fini della sicurezza per tutte le squadre avviate e il DdL ai fini della sicurezza per l’intero numero dei lavoratori dell’impresa portuale che gli ha delegato tale funzione».
Ma nel contesto del terminal, quasi mai, in un perimetro definito, opera un’unica impresa. «Prevale l’impresa terminalista autorizzata ai sensi dell’Art. 18 L. 84/1994, ma concorrono ai processi di realizzazione delle operazioni portuali le imprese autorizzate Art. 16 L. 86/1994. Non sempre i turni di lavoro pianificati sono rispettati per dare seguito alle necessità operative contingenti, non sempre gli spazi di manovra, deposito mezzi e di circolazione sono tracciabili e osservabili al millimetro per le contingenti e “normali eccezionalità” che vive quotidianamente un terminal. Non sempre quindi, o quasi mai, i limiti geografici dei luoghi di lavoro sono chiari e neppure quelli temporali sono certi. Vi sono sovrapposizioni continue e interferenze spesso inevitabili nelle “consegne” tra una fase e l’altra del lavoro caratteristico dei cicli operativi portuali».
Cosa succederebbe nella gestione e definizione dei confini reali e virtuali dei soggetti che ricoprono le posizioni di garanzia se si andasse a liberalizzare la presenza – e interferenza certa – nel processo operativo portuale del personale marittimo?
Civran risponde prendendo ad esempio l’operazione di carico e scarico delle merci da un camion. «Quando un camion arriva nel piazzale di un’azienda, all’autista viene raccomandato di scendere vestendo i necessari D.P.I., quindi di sostare in un luogo che abbia 02 caratteristiche: sia sicuro da rischi per la salute e sicurezza dell’autista e consenta a quest’ultimo di tenere sotto controllo l’intero processo di caricazione del pianale, eccependo – se del caso – nel momento in cui individui delle non conformità tra sagoma del carico e sagoma del pianale, tra lo schema di caricazione e le modalità seguite dal caricatore o nei pesi consentiti per singolo asse».
In base all’Art. 7 del D.Lgs 286/2005 trasportatore e caricatore sono corresponsabili in caso di incidente derivante da cattiva allocazione del carico sul camion. «Ma è altrettanto noto che all’autista è fatto esplicito divieto di allontanarsi durante tutte le operazioni di sollevamento, caricazione e rizzaggio del carico dal punto sicure di controllo assegnatogli. L’autista non deve interferire nelle operazioni. Può eccepire sulle scelte comunicando con il responsabile della caricazione, ma non può salire sul pianale a coordinare, dare indicazioni sulla posa del carico, rizzare il carico o quant’altro».
Allora, la domanda sorge spontanea: «Se le operazioni di caricazione di un normalissimo camion sono vietate da parte di un autista in regime di autoproduzione, che senso ha consentirle a bordo di una nave che di camion ne trasporta anche 500 o di contenitori fino a 18.000?».
Eccoli, sintetizzati, i quattro no all’autoproduzione spinta. Interferenza, Comunicazione, Competenze e Garanzie. Permettere ad una nave di ricorrere, senza limiti, ai propri marittimi di bordo per caricare, scaricare la merce, non conviene a nessuno. Nemmeno a Quelli che apparentemente avrebbero tutto da guadagnarci. «La liberalizzazione spinta non porta benefici in termini di competitività ma aprirebbe i varchi ad una situazione praticamente ingestibile sotto molteplici punti di vista, a cominciare da quello della safety portuale» conclude Civran.