«Il Paese deve decidere che cosa vuole fare da grande: se rimanere una semplice area di transito, più o meno appetibile, verso le destinazioni finali o se, invece, sviluppare un disegno logistico-industriale che la proietti verso nuovi traguardi, a livello comunitario e internazionale. La posizione geografica non può più essere l’unico vantaggio che il Paese mette sul mercato».
Parte da qui la riflessione ad ampio respiro che il direttore di Confetra, Ivano Russo, consegna a Port News. E che prende le mosse da un’analisi dello scenario macroeconomico nel quale oggi si muove l’Italia: «Siamo nel Secolo della Logistica, preconizzato fin dal 2015 da Parag Khanna: guerra dei Dazi, Brexit, Via della Seta, Rotta Artica, controllo del 5G, Smart Data, vanno ridefinendo i grandi rapporti di forza interni tra le grandi potenze geoeconomiche. E noi siamo l’unico Paese del G7 o trai grandi Stati Membri UE a non avere un big player delle spedizioni internazionali, una compagnia aerea di bandiera in grado di affermarsi nel settore cargo, una Shipping Line leader nel trasporto container, un grande terminal operator portuale nazionale in grado di espandere la propria influenza anche in altri Stati. La verità è che l’Italia non ha mai voluto o saputo sviluppare una politica industriale per la logistica».
L’assenza di grandi player logistici e terminalisti nazionali ha avuto una duplice ricaduta negativa: «Nei grandi Paesi comunitari, gli attori leader dei vari settori hanno aiutato le filiere a crescere attraverso i cosiddetti meccanismi di cluster. Ciò è avvenuto anche in Italia, in tanti comparti ma non nella Logistica. Pensi a ciò che realtà come Alenia, Fiat ed Ansaldo, hanno rappresentato rispettivamente per il settore aerospaziale, automobilistico e ferroviario. Attorno a loro si sono create centinaia di piccole e medie imprese, trainate dal committente, in grado oggi di camminare anche con le proprie gambe. Stessa dinamica la si può osservare per i grandi brand nazionali del food e del fashion».
Non avendo mai avuto campioni nazionali in questo campo, «ci siamo ridotti a servire le grandi multinazionali globali che hanno legittimamente, e fortunatamente, usato l’Italia per i loro obiettivi commerciali. Le nostre imprese, nella stragrande maggioranza dei casi, sono state utilizzate come meri subfornitori di servizi, tra l’altro spesso a basso valore aggiunto».
L’altra ricaduta negativa riguarda il fatto che l’Italia non è oggi in grado di presidiare i propri interessi economici nello scenario del commercio globale: «La Germania, a differenza nostra, può mettere a punto una strategia industriale e della propria bilancia commerciale avendo poi forti braccia e gambe sulle quali far correre nel mondo i propri progetti di sviluppo e interessi economici: penso a DHL, DB, Schenker, Eurokai, Lufthansa Cargo, Hapag Lloyd. Lo stesso può dirsi di Danimarca, Olanda, Francia e in scala diversa anche di Belgio e Svizzera».
Il tema è questo: avere un disegno economico-industriale che permetta di gettare le basi per creare una Logistica protagonista almeno su scala continentale. Ed, attenzione, mettere a terra una politica industriale logistica non significa soltanto creare nuove infrastrutture: «Se continuiamo a realizzare opere ma rimaniamo un’area essenzialmente di transito della merce verso altre destinazioni finali, rischiamo di non produrre gli effetti economici di crescita auspicati”
Russo cita un esempio tra tutti: «Tra il 2000 ed il 2017 il PIL della Liguria è diminuito di circa il 6.7%. Nel 2018, anno del boom dei traffici dei porti di Genova e La Spezia, la regione si trovava ancora in fondo alla classifica tra le regioni con il più basso Prodotto Interno Lordo, seguita solo da Molise e Calabria. Sarebbe ridicolo pensare che questi dati siano il frutto solo dell’assenza del Terzo Valico o della Gronda. Parliamo comunque della regione hub portuale nazionale e, assieme alla Lombardia, del polmone logistico del Paese. Le opere vanno fatte, sia chiaro, ma contestualmente ad una politica per irrobustire le imprese, per le semplificazioni, per il dialogo logistica-manifattura, per incentivare il franco destino in export, per gli investimenti innovativi, per la formazione, per l’internazionalizzazione, per le aggregazioni ed i consolidamenti».
Insomma, «non basta avere porti o ferrovie performanti se non c’è una strategia complessiva che ci consenta di trasformare la logistica in ricchezza vera e diffusa». «Solo in questo modo puoi garantirti quote crescenti di traffico, lavorare le merci per aggiungerci valore, redistribuirle, ed avere la certezza di non essere appetibile soltanto per via della vicinanza alle grandi catchment area della Svizzera, dell’Austria, della Germania».
Per Russo «sovrapporre gap logistico e gap infrastrutturale, come se il primo fosse risolvibile automaticamente risolvendo il secondo, è stato un drammatico errore figlio di una subcultura trasportistica autoreferenziale, tutta e solo offertista e cemento centrica. Il tema infrastrutturale è parte del problema, non il tutto».
Come insegna il professor Ennio Cascetta la logistica è una domanda derivata dall’economia reale e le infrastrutture sono una subderivata al servizio dei trasporti e della logistica, sempre che ciò serva in ultima istanza a produzione e consumi: «Se non partiamo dall’economia reale è inutile parlare di un concreto sviluppo del settore. Questo, negli ultimi dieci anni, è cresciuto tanto da far parlare di effetto decupling. Eppure non ha dato nessuna spallata alle statistiche, in un PIL Paese stagnante dal 2008».
Così come si sta ragionando di un robusto piano per il cargo merci aereo nella Newco ITA, così come nuovi grandi player si stanno affacciando nel business della logistica (Enel Logistics), allo stesso modo per Russo si può e si deve ragionare anche della possibilità di sviluppare un’operazione che aiuti il terminalismo italiano a mettere in campo uno, o due grandi campioni: «Ma occorre stare dentro ad un ragionamento di insieme: l’operazione ha senso se viene sviluppata innanzitutto in un quadro regolatorio che eviti illecite distorsioni di mercato. E poi attorno occorre un progetto Italia Logistica: se il nuovo terminalista, eventualmente sostenuto da CDP o Invitalia, deve andarsi a posizionare sulla stessa scala dimensionale media attuale per aggredire lo stesso mercato domestico che si sposta da porto a porto sempre dentro i circa 11 mln di Teus che il Paese movimenta da dieci anni, rischiamo soltanto di perdere tempo inutilmente».