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Interventi

In difesa dei lavoratori portuali

Orgoglio e pregiudizio

di Roberto Rubboli

Direttore dell’Associazione Nazionale Compagnie Imprese Portuali

Abbiamo letto con interesse e attenzione l’articolo scritto dall’avvocato Davide Santini. Delle tante cose da lui riportate certamente condividiamo il fatto che a suo tempo il legislatore, nell’impostare la nuova normativa, intese tutelare sia i lavoratori che lo strumento dell’ex Compagnie Portuali.

Non si trattò di una scelta casuale ma fu il frutto di una profonda analisi e di una articolata discussione politica e tecnica. Proviamo un po’ di pena per chiunque assuma un atteggiamento paternalistico nei confronti dei lavoratori, considerandoli in sé e per sé soggetti deboli che necessitano di essere accompagnati, guidati o difesi da terze persone.

Gli strumenti di tutela ci sono già ed esistevano anche all’epoca dell’entrata in vigore della Legge 84/94: sono i contratti, sono le norme, le organizzazioni sindacali, i tribunali.

Tutelare quindi il lavoratore non è un regalo, un atto di misericordiosa generosità posto in essere da un qualche imprenditore particolarmente illuminato ma un diritto che deriva dalla Costituzione della Repubblica Italiana e che va perseguito in assoluto.

Paradossalmente, oggi come sempre, i lavoratori dell’articolo 17 sono tutelati anche nei confronti delle ex Compagnie Portuali, nel momento in cui queste venissero meno ai compiti ai doveri di un datore di lavoro.

Se a suo tempo fu scelto di tutelare oltre che il lavoro anche la forma di questo, è dovuto al fatto che oggi come allora si riconosceva alle ex Compagnia Portuali, così modificate, un profondo valore di capacità di servizio e di utilità allo sviluppo del porto. Si riconosceva, in poche parole, non già la capacità di conservare privilegi e abitudini sbagliate, bensì quella di anticipare e programmare le necessità del mercato nella forma che sempre più velocemente fin da allora veniva richiesta. Mi riferisco a un principio fondamentale dell’organizzazione del lavoro in porto che è quello dell’autogestione dei lavoratori.

Tale principio ha sicuramente garantito la qualità del lavoro, permettendo agli imprenditori di scegliere se avere dei dipendenti alle dirette dipendenze o se utilizzare i soggetti preposti non soltanto alla mera fornitura del lavoro ma anche della conoscenza e, soprattutto, della condivisione delle responsabilità e degli obiettivi e partecipazione ai problemi quotidiani.

Questa formula ha funzionato dappertutto? No. Ci dispiace che le critiche arrivino proprio da quelle esperienze che hanno dato la prova peggiore. La storia dell’ex compagnia portuale di La Spezia si è chiusa in modo inglorioso già ben prima della riforma. Non sta a noi valutare le motivazioni che hanno condotto quella realtà alla rissosità e all’autodistruzione, ma sicuramente non può essere assunto come modello della portualità nazionale.

Nulla da ridire contro lo strumento del comma 5 (modello Agenzia) che è stato voluto dal legislatore proprio per intervenire in assenza della possibilità di istituire il comma 2 (modello impresa). Non a caso tutti i commi 5 esistenti sono il risultato di risposte date a situazioni complesse e spesso sbagliate nei vari porti.

Ben venga una situazione come quella di Trieste dove si è rimediato con un comma 5 all’inefficienza ed all’assurda proliferazione di articoli 16 spuri in guerra fra di loro. Ciò è successo anche grazie alle capacità e alla lungimiranza di grandi esperti di portualità come Zeno D’Agostino e Mario Sommariva.

In altri porti sono nati degli pseudo commi 5 frutto del dramma provocato dall’abbandono e dal licenziamento di centinaia e centinaia di lavoratori che erano stati assunti da imprenditori che hanno ottenuto benefici millantando sviluppo e che se ne sono andati lasciando sulle spalle della comunità e a carico dello Stato le persone prive di stipendio e di occupazione.

Dove il 17 comma 2 funziona, e dove la collettività portuale ha saputo capirne l’importanza e il valore, questo ha rappresentato la miglior scelta possibile effettuata da “imprenditori” che certamente non hanno nulla da imparare e che sono riusciti a perseguire utilità, sviluppo e profitto senza comunque infrangere le regole del mercato e ottenendo economia di scala e soprattutto flessibilità nei momenti di crisi che mai come in questo periodo (pandemia e guerra insegnano) sono stati uno dei più grossi problemi dei porti.

Ulteriore valore aggiunto della formula di 17 comma 2 è dato dal fatto che i lavoratori si sentono non solamente dipendenti e strumenti dell’efficienza di un porto ma protagonisti di questo.

Ogni lavoratore dell’articolo 17 si sente un po’ padrone del porto e se questo qualche volta può dare adito a minime difficoltà, alla resa dei conti, significa che i portuali, pur avendo certamente a cuore il proprio stipendio, la propria condizione lavorativa e di salute, tengono allo sviluppo e al successo del porto in cui lavorano.

Questo fa parte del loro DNA, fa parte della loro storia e della cultura. Non è un caso che in tutti i porti spesso il lavoro si tramandi di padre in figlio da generazioni con un attaccamento alla banchina e alla stiva che non ha uguali.

Il lavoratore, quando è solo dipendente, vede spesso prevalere l’interesse dell’individuo rispetto a quello della comunità, come ci ha insegnato purtroppo la vicenda di Trieste al momento del covid.

In conclusione, siamo convinti che le opportunità che la legge consente vadano utilizzate tutte. Quindi sì all’articolo 17 comma 2, comma 5, al lavoro dipendente e al lavoro interinale tutelato, ma nessuno può dire che uno strumento o l’altro siano inefficienti o superati.

L’efficacia di un porto nasce dalla giusta miscelazione di tutti questi ingredienti e dal dosaggio opportuno della professionalità, delle risorse, delle culture e delle esperienze che contraddistinguono tutti i porti italiani.

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