Per gentile concessione dell’editore Franco Angeli, pubblichiamo un estratto della prefazione del saggio “I porti italiani e l’Europa, un’analisi delle regole, della giurisprudenza e della prassi amministrativa per operatori pubblici e privati”.
Negli ultimi anni, e soprattutto in quelli più recenti, l’ordinamento portuale ha subito ulteriori modificazioni, molte delle quali dovute anche a grandi mutamenti dei sistemi sociali ed economici relativi sia alla navigazione e ai trasporti, sia alla logistica, oltreché alla diversa configurazione dei mercati cui questi fenomeni fanno capo.
In realtà, l’originaria normativa di riordino della disciplina portuale, la legge n.84/1994, era intervenuta modificando alcune previsioni del Codice della Navigazione, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Giustizia maturata alla fine del secolo scorso, che aveva ritenuto incompatibili con le norme del diritto dell’Unione Europea la normativa relativa al lavoro portuale e alle imprese incaricate dell’esecuzione delle operazioni portuali.
Ma ulteriori modificazioni si sono rese necessarie a seguito della progressiva evoluzione della giurisprudenza unionale e delle modalità di attuazione degli stessi principi a fondamento del diritto dell’Unione, alle quali si sono aggiunte alcune recenti novità normative adottate a livello nazionale e a livello unionale.
Si pensi, soprattutto, alle nuove regole di riorganizzazione, razionalizzazione e semplificazione della disciplina concernente le Autorità Portuali, contenute nel D.lgs. 4 agosto 2016, n.169, nonché le ulteriori norme di affinamento della disciplina del lavoro portuale. Si pensi anche al regolamento (UE) 2017/352 del 15 febbraio 2017 che istituisce un quadro normativo per la fornitura di servizi portuali e norme comuni in materia di trasparenza finanziaria dei porti.
Queste nuove discipline d’altro canto risultano destinate ad operare in un contesto profondamente innovato, non solo sul piano giuridico, nazionale ed europeo, ma anche grandemente modificato dal punto di vista dei mercati di riferimento e della stessa percezione che si ha dei porti rispetto alla cd. catena logistica nella quale essi si inseriscono.
A quasi 15 anni dal nostro primo libro in materia portuale, hanno trovato, quindi, conferma le esigenze che in allora sollecitavano, e cioè «la necessità di un migliore coordinamento della disciplina dei porti con quanto sta intorno e all’esterno dei porti stessi, la natura dei porti come elementi essenziali della catena logistica, l’esistenza di porti diversi da altri in funzione della loro importanza e collocazione sulle grandi reti di trasporto internazionali e transeuropee, la possibilità e i limiti per le Autorità portuali di programmare – e finanziare – lo sviluppo del proprio porto, ovvero di guardare al di fuori dei propri ambiti spaziali di competenza, al fine di raccordare il porto alle vie di collegamento ad esso relative». Il legislatore, italiano ed europeo, in parte ha fornito risposte a queste esigenze, codificando anche i risultati cui nel frattempo è giunta la giurisprudenza, mentre per altra parte le ha ancora rinviate.
In parallelo a tale evoluzione normativa, sono anche aumentati, e soprattutto si sono notevolmente complicati, i livelli di governance del settore. Se all’entrata in vigore della l. n.84/1994 le amministrazioni o agenzie nazionali dotate di competenze sui porti erano sostanzialmente tre, e cioè Autorità portuale, Autorità marittima e Autorità garante della concorrenza e del mercato, a esse oggi si aggiungono, almeno per certi versi, l’Autorità di regolazione dei trasporti (ART) e l’Autorità anticorruzione (ANAC).
Nella stessa prospettiva, una sorta di “pregiudiziale negativa” del legislatore nei confronti dei pubblici funzionari, unita a legittime esigenze di finanza pubblica, rendono quanto mai difficile sia l’attuazione concreta e in tempi comparabili con altri porti europei (a tacere di quelli extraeuropei) degli investimenti infrastrutturali, sia l’impiego di strumenti agili e di diritto comune per l’attuazione di iniziative idonee a migliorare e promuovere efficienza e attrattività dei nostri scali. Ne risulta un quadro complessivo nel quale, al di là di un formale divieto di cd. gold plating, soprattutto l’attività delle Autorità di sistema portuali (AdSP) risulta assai più faticosa e complessa che in altri ordinamenti, e per certi versi quasi paralizzata, pur essendo logico e anzi doveroso immaginare – tanto più a valle del regolamento n.352/2017 e considerata l’assoluta interscambiabilità dei porti italiani con quelli di altri Stati europei e no – una disciplina del settore che non può non rispondere quanto meno al livello europeo, a standard normativi e operativi sostanzialmente armonizzati, unico dovendo essere il cd. level playing field nel quale i nostri porti e le relative catene logistiche competono nei corridoi della rete TEN-T.
Donde fughe in avanti con proposte tese a “privatizzare” le AdSP. Si tratta di proposte […] non prive di suggestione, ma con implicazioni sistematiche che non appaiono sempre colte appieno, prima fra tutte l’esigenza di mantenere accessibili i grandi snodi infrastrutturali della catena logistica che fa capo al nostro sistema economico, come i porti, rispetto ai loro utenti, evitando che i livelli di concentrazione dei mercati, possano condurre ad irreversibili distorsioni della concorrenza e generare condotte escludenti o attribuzione di rendite di posizione a vantaggio di pochi grandissimi operatori. Con conseguente preclusione dell’accesso ai mercati e condizionamenti notevoli per la nostra stessa competitività come sistema Paese.
Per altro verso, proprio la dimensione e il rilievo globale di alcune importanti “controparti” imprenditoriali rispetto ai singoli porti o “sistemi portuali” nazionali, rende necessario individuare a livello nazionale un luogo di coordinamento della politica e delle scelte di governo portuale. In tale senso si è opportunamente adottata la riforma del 2016, prevedendo che le AdSP non siano centri decisionali formalmente autonomi ma partecipi di un disegno coerente con l’attività programmatoria da elaborare a livello statale ed europeo relativamente alla catena logistica e quindi al conseguente sviluppo dei porti.
Con specifico riguardo ai rapporti giuridici interni al singolo porto, rinnovata attenzione merita l’evoluzione intervenuta in questi anni, e la giurisprudenza che si è consolidata quanto alla disciplina dei rapporti tra Autorità e imprese che operano in ambito portuale e alle regole sull’accesso ai diversi “mercati” che compongono l’ampia gamma di operazioni e servizi portuali, inclusi quelli tecnico-nautici e gli altri servizi di interesse generale. Regole che, con qualche confusione, taluni tuttora cercano di identificare tout-court con la disciplina degli appalti pubblici e di servizi, quando questi profili appaiono esclusivamente confinati a una gamma molto circoscritta di alcuni servizi, notevolmente minoritari rispetto a quelli svolti nei porti.
Altra cosa è la contendibilità delle risorse scarse interne ai porti stessi, che sono tuttavia di ordine geografico, o relative a forme di monopolio naturale, rispetto alle quali criteri di trasparenza e pubblicità, pur necessari, nulla hanno a che vedere con le regole applicabili quando si tratta di identificare prestatori di lavori o servizi pubblici. E al riguardo, non si mancherà di identificare i casi nei quali le relative norme possono venire in rilievo, rispetto a quelli nei quali, invece, le regole di accesso alle attività imprenditoriali nel porto nulla hanno a che vedere con la disciplina di diritto comune relativa agli appalti e ai servizi pubblici.
In questa ottica, quindi, coesistono nei porti sia situazioni nelle quali, una volta dato accesso agli spazi portuali, l’autonomia privata delle imprese può estrinsecarsi pienamente per dare corpo ai rapporti ormai tipizzati nel commercio internazionale del settore […], sia rapporti invece i cui contenuti scontano importanti elementi di regolazione, tipici delle situazioni nelle quali la concorrenza non può operare.