I veloci cambiamenti intervenuti a seguito di provvedimenti legislativi nazionali ed europei hanno esercitato un’influenza notevole nel modo di essere delle Autorità portuali. Se è ancora troppo presto per valutare appieno le conseguenze di tali riforme, può essere invece importante sottolineare come nella recente dichiarazione dei ministri dei Trasporti europei (Valletta Declaration del marzo 2017) sia stato ribadito il ruolo decisivo delle Autorità portuali quale soggetto completamente autonomo nella gestione delle attività portuali sotto il profilo sia economico che programmatorio, salvo ovviamente il controllo statale o regionale allorché si tratta di valutare interventi urbanistico-pianificatori nelle infrastrutture portuali. Secondo una ben nota classificazione, i sistemi portuali possono essere di tre tipi: conservatore, facilitatore e imprenditore.
A giudizio del segretario generale dell’ECSA Patrick Verhoeven e dell’Istituto ITMMA di Anversa quelli del primo tipo operano come amministratori di condominio: si comportano in modo passivo e meccanico rispetto alle funzioni più dinamiche, rischiando così di restare marginalizzati se non addirittura di estinguersi. Un sistema portuale facilitatore – il più diffuso in Europa – pratica invece una mediazione costante tra interessi economici e sociali, necessita di manager aperti al dialogo e s’impegna nella ricerca di collaborazioni regionali, nazionali e internazionali. Il modello imprenditore vede infine l’Autorità portuale operare come un soggetto con le stesse caratteristiche e poteri di un ente privato: un primo punto di vantaggio per i sistemi portuali nordici (su tutti quelli di Anversa e Rotterdam) rispetto a tutti i porti italiani. La possibilità di svolgere attività promozionali o di sostegno a iniziative anche dei terminalisti incontra infatti da noi serie difficoltà, non solo perché in molti casi queste attività sono vietate ma anche perché per essere messe in opera richiedono spesso complessi passaggi burocratici che ne allungano i tempi. Va comunque precisato che i grandi porti del nord agiscono secondo regole del diritto commerciale privato pur restando proprietà delle istituzioni pubbliche che ne sono gli azionisti di netta maggioranza. Non si vede perché un simile modello non possa essere adottato anche in Italia.
So benissimo che la questione è stata più volte discussa e che non incontra i favori della maggioranza delle Autorità portuali e dello stesso Ministero dei Trasporti. Al tempo stesso non possiamo però non renderci conto di come la portualità stia vivendo una profonda rivoluzione, il cui impatto è in parte paragonabile a quella segnata decenni or sono dall’avvento dei container: mi riferisco ovviamente al prepotente ruolo esercitato nell’ambito dello shipping dalle nuove megaship (la cui capacità è passata in pochi anni da 8-9mila a 22-23mila TEU). Qualche studioso, come il professor Sergio Bologna, paragona il boom delle grandi navi alla crisi dei mutui subprime. Non credo che il paragone sia completamente azzeccato, se non altro perché nel caso dello shipping abbiamo a che fare per lo meno con delle navi e non soltanto con finanza di carta… Sta di fatto che un elemento comune tra i due fenomeni resta quello della marcata finanziarizzazione dei processi produttivi.
Per contrastare la forza d’urto delle big container ship occorre quindi diversificare i traffici (ad esempio nel settore dei rotabili), lavorando al tempo stesso ad alleanze a livello internazionale tra diverse Autorità portuali (nel nostro caso di particolare interesse sarebbero quelle nella sponda sud del Mediterraneo). Di tale questione, che attiene più alla geopolitica che non allo shipping tout court, si discute assai poco nel nostro Paese. Lo si fece invece in maniera piuttosto vivace due anni or sono in occasione di un convegno promosso dall’Organizzazione dei porti europei (ESPO): “Megaships, opportunity or menace?” Al dibattito seguì una votazione assolutamente informale: per il 55% dei presenti questo fenomeno era visto come un’opportunità, per il restante 45% invece come una minaccia. Del primo gruppo facevano naturalmente parte tutti i porti del nord, in linea con la filosofia ben riassunta in un intervento del direttore del porto di Anversa: «Big cargo, big ships, big ports». Sul punto vale ancora la pena di ricordare le osservazioni del professor Bologna: «I porti dovrebbero incominciare a introdurre modelli operativi sostenibili e a porre dei vincoli di accesso a costo di scontrarsi con i loro clienti. In realtà pensano a farsi la guerra, avendo come primo obiettivo il vicino, oppure si lasciano sedurre dalla prospettiva del gigantismo e vogliono diventare mega port. A porre un freno dovrebbero pensarci le autorità di regolazione e la politica, quella europea prima ancora di quella dei singoli Stati. Ma poiché questo non avviene è allora dal basso che deve partire la voce della ragione. Ciascuno metta il suo chip».