Nel corso degli ultimi anni si è largamente affermata la pratica dello smantellamento e/o del riciclaggio dei materiali di costruzione delle navi presso alcune nazioni del sud est asiatico. Ciò avviene in siti non rispettosi delle norme di sicurezza, di salvaguardia della salute umana e ambientale nonché a grave danno degli operatori economici qualificati.
A tal proposito è storica ed emblematica la prima pronuncia con cui un Tribunale dell’Unione considera un armatore europeo penalmente responsabile per aver fatto demolire proprie navi da operatori situati in aree cosiddette non OCSE.
Lo scorso 15 marzo 2018 la società Seatrade è stata infatti condannata dal Tribunale di Rotterdam per ceduto nel 2012 e, immediatamente dopo, aver fatto demolire quattro navi rispettivamente in India, Bangladesh e Turchia. Questo in violazione del Regolamento UE n. 1013/2006, che vieta il trasferimento in Paesi cosiddetti non OCSE tanto di rifiuti tout court al fine di smaltirli (art. 34) quanto di rifiuti pericolosi al fine di un loro futuro riutilizzo (art. 36).
La Corte olandese ha mosso dall’assunto per cui non sempre è facile comprendere fino a che punto e a quali condizioni applicare anche alle navi i divieti genericamente previsti da questi due articoli.
Richiamando la sentenza Shell (Corte di Giustizia UE, sez. I, 12 dicembre 2013), ha però ritenuta discriminante la sussistenza – emersa dai comportamenti documentati negli atti di causa – di un’effettiva intenzione da parte della Seatrade di considerare le navi come dei rifiuti.
In altre parole, a giudizio della Corte non rileva che nel corso dell’ultimo viaggio le navi abbiano trasportato merci e cambiato proprietà. Tali comportamenti, infatti, rappresenterebbero solo dei tentativi di eludere i controlli svelando la reale intenzione di demolire la nave solo una volta fuori dall’ambito applicativo del Regolamento europeo.
Tale considerazione appare in linea anche con il Regolamento UE n. 1257/2013 sul riciclaggio delle navi (in vigore dal 31 dicembre 2018) e con la Convenzione internazionale di Hong Kong del 2009 per un riciclaggio sicuro ed ecologicamente corretto delle navi, per la quale si è ancora in attesa che si completi il complesso meccanismo previsto per l’entrata in vigore.
Nel prendere la loro decisione i giudici di Rotterdam da un lato hanno valorizzato lo scopo effettivo dell’operazione (ovvero recuperare le molte tonnellate di acciaio), dall’altro non hanno trascurato le quantità significative di rifiuti pericolosi contenuti nelle navi (combustibili, acidi e amianto).
Per tali ragioni hanno considerato le navi da smaltire quali rifiuti non scindibili e complessi (composti da rifiuti pericolosi e non), ritenendo pertanto illecito il loro trasferimento verso Paesi non OCSE.
Questa sentenza stabilisce insomma un precedente importante per incentivare lo smaltimento navale verso operatori qualificati. Se da un lato non rimarrà sicuramente un caso isolato, dall’altro dovrà però essere supportata con interventi da parte del legislatore europeo.
Sullo sfondo permangono infatti i rischi di una possibile scarsa applicazione dei ricordati Regolamenti comunitari. Una soluzione potrebbe essere l’aumento della competitività degli impianti di riciclaggio europei conformi, evitando peraltro che simili interventi non vengano considerati incompatibili con la normativa europea sugli aiuti di Stato.